Un autore non appiattito su di uno stile, non standardizzato, che mescola sentimenti panici ad ossessioni personali, che alla modernità fonde millenarie suggestioni... Ogni disco va bene, per chi avesse la curiosità di scoprire di cosa è capace Mike Scott, con o senza i suoi Waterboys, ma pochi andrebbero bene come questo A Rock In The Weary Land", del 2000, che segna il ritorno sulle scene del suo 'brand', dopo più d'un quinquennio di produzioni a proprio nome.
Ascoltate l'iniziale "Let It Happen", e ditemi se non è perlomeno doveroso cestinare le recenti produzioni degli Stereophonics, o perlomeno resettare dalla memoria la loro "Devil"... Il vento atlantico, quell'elemento che entra nell'animo degli artisti e che li costringe ad uno stato di perenne tensione, lo puoi sentire in "The Charlatan's Lament"... La tragedia continua inesorabile in "Is She Conscious?", in cui i ritornelli arrabbiati dalla voce straziata non sollevano il morale neppure all'ottimista per natura. Coldplay e soci, imparate tutta la vita.
La voce di Mike è quella di un vecchio amico, di un fratello maggiore, e canta le melodie più meravigliose, come in "We Are Jonah", christian rock e lacrime di commozione che ballano in un turbine di vento ghiacciato. Il celebre piano elettrico Waterboys (quello che i Keane erediteranno-cloneranno) suona manco fosse Clayderman. Sussurri e sospiri, acustica ed aliti, per due minuti di triste delicatezza, in "It's All Gone"... Un piano che sembra "Karma Police", un incedere simile a quello di "Sowing The Seeds Of Love" dei Tears For Fears, un violoncello lieve, uno special durissimo, uno spazio a cappella, un finale tra archi, chitarre e coro gospel: questi sono i Waterboys, nella splendida quasi titletrack "My Love Is My Rock in The Weary Land". Easy listening un corno.
La musica di Scott non è fatta di cambi di ritmo, ma di continui stratificarsi-rarefarsi/addensarsi-dissolversi/intensificarsi-attenuarsi... Ne consegue che ogni pezzo elettrico potrebbe essere ridotto all'osso dell'acustica e voce, così come l'acustica "Lucky Day/Bad Advice" potrebbe essere elettrificata ed alzata fino in cielo. Sapiente negli episodi meno esplosivi, Scott, che limita la loro durata ad un tempo non superiore ai due minuti e mezzo. Soluzione peraltro risalente al vecchio "Room To Roam", ed al periodo della sua infatuazione per la musica Irish.
Blues teatrale con ritornello pop per "His Word Is Not His Bond", ed ancora un assolo da marcia funebre. "Malediction" vede un menestrello medievale farsi accompagnare da un'acustica blues: una specie di Branduardi su di una base di Willy DeVille. Perfetta. In alcuni pasaggi somiglia un po' a "Stairway To Heaven", ma si sa: molti sono gli artisti che, nella loro musica, si sono lasciati sedurre dalle suggestioni della storia patria... Interessante, in "Dumbing Down The World", lo sposalizio di tastiere flautate e di velluto con quelli che sono il pezzo più duro, la voce più rauca e la chitarra più sorda del disco: tessere di domino che si ergono a perimetrare un elefante.
Il blues diviene il genere più suonato nelle locande di pescatori di naselli, con "The Wind In The Wires" (ancora e sempre il vento), e Mike Scott è un sex symbol numero uno per le salatrici di baccalà in tutte le conserverie di Scozia. Tralasciando i seppur graziosi 50 secondi di instrumental rock dance in "Night Falls On London", passiamo agli ottoni medievali che introducono "Crown", ovviamente l'episodio epic rock del disco. Il proclama di un nuovo conquistatore è sopra una base di chitarra elettrica e senza ritmo; poi finalmente una tanto agognata dimostrazione di potenza rock assoluta. Quindi salgono nuovamente i fiati, trombe e sax... Non ce la fa, Mike, a suonare rock senza straripare nel rhythm and blues... Non che mi dispiaccia, ma era da un bel po' di tempo che non si sentivano, in un suo disco, tante chitarrone... Come per ogni disco per "viaggiatori dentro e fuori" che si rispetti, la conclusione è affidata all'immancabile sermone anabattista. Qui vi è offerta l'efficace "My Lord What A Morning".
Un lavoro senza dubbio molto ispirato, di un autore che ama il pop rock ma che sa di essere bravo al punto tale da non potersi "limitare" al pop rock. Sebbene ancora (e sempre) influenzato dalla musica e dai paesaggi delle sue terre, nonché dal dio Van Morrison, Mike Scott ritorna un vero Waterboy e sforna ottimi brani, capaci d'acchiappare il neofita come d'entusiasmare il fan della prim'ora. Filtra le sue ballads elettriche d'una vena di tristezza cimiteriale, non si adagia su stili triti, pur rimanendo fedele a se stesso, se non forse nell'iniziale (ma superbo) blues-rock di "Let It Happen".
Disco bellissimo. Solo un consiglio: per apprezzarlo in pieno, non ci si deve limitare ad ascoltarlo, e basta...
Ci si deve "immergere"...
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