Tre anni dopo "Room To Roam" e a cinque di distanza da "Fisherman's Blues", sarà - finalmente? - terminata, per Mike Scott, la sbornia Irish, tutta Guinness e 'skiddly-addlee-dee-do'? In "Dream Harder" sembrerebbe di si. A lasciarlo sospettare-sperare è sufficiente leggere che questo album è stato registrato a New York, e non più nella piccol(issim)a Spiddal, paesino di pescatori di platesse nella baia di Galway, Eire, dal lato opposto dell'Atlantico... L'aria della metropoli immaginiamo giovi a Mike Scott come gioverebbe il profumo di caffè a chi ha trascorso una notte da incubo, dopo averci dato troppo dentro col Tullamore Dew...
Scott, si ribadisce, mente-anima-cuore-chitarra-voce-leader dei Waterboys, un progetto piuttosto che una band, è un tipo che ha una predisposizione naturale ad "interiorizzare la geografia", si direbbe... Se passa cioè da una nazione all'altra, si lascia sedurre da easy ed uneasy suggestions varie, da suoni diversi e diversi credi, filosofie, culture, facce, umanità, sorrisi, ambienti, stili, architetture, arti, mestieri, climi, paesaggi... E la sua musica, la sua vena letteraria, nonché l'ispirazione, esse mutano di disco in disco, eccezioni periodo irish a parte, sebbene i ragazzi d'acqua siano etichettati come 'semplici' musicisti folk-rock.
Il disco inizia con "The New Life", manifesto programmatico, e pezzo rock vecchio stile... La sua voce non è più epica e non rende più a dovere: anni di traditionals irlandesi abbinati allo studio-contemplazione dell'opera del grande Van Morrison hanno manipolato e mutato per sempre la sua straziata vocalità, placandola. In parziale compenso, la sua capacità compositiva rock è immutata. Chitarre ruggenti e batteria per la canzone più famosa della loro storia, e la più rappresentativa, in tutti i sensi... Per quanto riguarda la musica, tormento chitarristico nel ritornello, pop raffinato e piano elettrico-trademark nelle strofe; ascetici vocalizzi di donna in aiuto tra i passaggi... Per i testi, il viaggio perenne di un novello Knulp, un viaggiatore che lentamente si trasforma in un pellegrino, che gira il mondo in cerca di se stesso e finisce per trovare Dio, "where He always was". Questa è "Glastonbury Song", mitica canzone che, come tutto ciò che è semplicemente grande in sé, verrà violentata da un cazzone italiano e tramutata in una porcheria senza confini... Altro che vocalizzi di donna: nel finale persino dei "po-po-poro" che manco allo stadio... Per inciso il cazzone italico si chiama Samuele Bersani, e per lui le canzoni sono tutte "Chicco E Spillo"...
Pop chitarristico d'atmosfera, venato di gospel, per "Preparing To Fly"... Gusto e tensione sono quelli di una volta, quelli pre-Irlanda, ed il ritrovato easy listening anglosassone convince. Scott suona la chitarra così bene che ti viene di maledire la sua poliedricità: a quest'ora avresti avuto una manciata di discacci di rock senza compromises, magari meno originali, ma vuoi mettere dieci violini irish - e sette quintali di platesse impanate -, a confronto col giusto sound di una chitarra elettrica ben suonata?
Questo disco ha un altro grande single, anch'esso tutto "spirito", che lega l'ansia dell'uomo che non ha pace a sonorità mediorientali-mediterranee, che sanno di viaggi omerici ai confini del mondo e del tempo, e di miraggi e visioni mistiche. "The Return Of Pan", il ritorno del dio greco nonché feticcio personale di Scott - presente già in "This Is The Sea" nella celebre "The Pan Within" -, che ritorna in vita, anzi che giammai è morto, nonostante Jesus. "The great god Pan is alive!" urla Mike, e poi si scatena in assolo. Pezzo da ballare come Kostner, coi lupi. O con le salamandre...
Fin qui, è un disco magnifico di spiritual rock, ma ci si deve "accontentare" di un seguito fatto di pop di qualità ed episodi meno significativi, come il little country di "Corn Circles" (i segni circolari nei campi di pannocchie), o le piccole gemme di un minutino "Winter Winter" e "Wanders Of Lewis". L'aria di New York riaffiora nel pop-mezzo reggae di "Suffer", niente di rappresentativo, mentre ritornano le note "acquatiche" (persino la chitarra è piatta e "subacquea") nella suggestiva ballad "Love And Death".
Una spoken word psichedelica, per Scott, il quale profetizza il ritorno, assieme al dio Pan, di un altro che, se divino non era, d'umano aveva ben poco, in "The Return Of Jimi Hendrix". Bello il mix di gusto compositivo irish-folk e sonorità indiane, sitar e campanacci vari... Cosa c'è venuto a fare, un pescatore di baccalà a Katmandu? Il pop di qualità, da bar metropolitano, sul finale del quale ritornerà a fraseggiare un sax, come ai vecchi tempi, chiuderà il disco con "Good News"; il suo pop-rock-blues, quello di "The Big Music" e di "A Pagan Place" è senza dubbio nelle sue corde da sempre, e bene si sposa con "le mille luci di New York", ma non è di questo che un disco con quei quattro pezzi iniziali doveva alimentarsi...
"Dream Harder", la cui qualità compositiva è ineccepibile, è un disco disomogeneo, in cui gli episodi più forti male s'abbinano ad esperimenti di 'folk residuato riarrangiato' (la seppur buona "Spiritual City" e "Corn Circles") ed al New York pop di "Suffer" e "Good News". Ne consegue che il disco sarebbe stato molto meglio se tutto pop, ed eccellente se tutto "pagan-rock" e "polytheistic rock" (mica ci può essere solo il 'christian'!). Ma dopo una sbornia di birra quadruplo malto come quella che Mike ha preso a Spiddal, paesino di pescatori di platesse in riva all'atlantico, in piena baia di Galway, ogni suono è buono. Purché diverso dal solito.
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