Da sempre sostengo che l’analisi di un disco debba partire dalla sua copertina; molte volte le immagini in essa contenute ci sono di grande aiuto per capire la situazione di un gruppo in quel preciso momento della propria carriera discografica. E posso con assoluta certezza affermare che questo mini LP dei Thin White Rope ci dice già tutto dallo strano e sghembo disegno che caratterizza la copertina.

Un uomo armato di scopa che sta cercando di riordinare, ti tenere ancora insieme ciò che resta della sua abitazione, mentre un pesante braccio di una gru continua il suo lavoro di demolizione; così mi appare il gruppo di Guy Kiser e Roger Kunkel agli inizi del 1991. Una band logorata dai continui ed estenuanti tour promozionali; concerti infiniti in giro per il mondo che non hanno portato quell’agognato ritorno economico. I due storici leader stanno cercando in tutti i modi di resistere, di portare avanti l’enorme progetto musicale che fino a quel momento a regalato una lunga serie di album a dir poco epocali.

E’ un disco di sole sei canzoni; tutte cover di artisti a parte un brano firmato dallo stesso Guy con, udite udite, gli Avion Travel. Si comincia con lo strumentale “Caravan” di Duke Ellington e subito si entra in quel sound desertico del quale i Thin White Rope sono stati tra i più grandi esponenti. Si passa poi a “Film Theme” dei già segnalati Avion Travel, a mio avviso il pezzo più debole della raccolta: troppo spenta la voce di Kuy, con le chitarre che non graffiano in alcun modo. Ma ci pensa poi il classicone “Roadrunner” di Bo Diddley, a rimettere le cose a posto: la voce al vetriolo che ben conosciamo fa da sicura guida all’acidissimo assalto sonoro di tutti gli strumenti, con un assolo conclusivo delle due chitarre che tramortisce da tanto vigoroso. Brano a dir poco travolgente: un Rock-Blues-Psichedelico alla Thin White Rope.

Il lato B del mio vinilozzo, custodito come un’autentica reliquia, si apre con “May This Be Love” di un certo Jimi Hendrix e prosegue infine con due brani dei Byrds: “Everybody’s Been Burned” e “I Knew I’d Want You. In tutte le tre mirabili canzoni si respira un aria dimessa, per non dire malinconica, come se la band avesse la chiara consapevolezza di una fine ormai imminente. E per dare consistenza al mio argomentare mi viene in aiuto ancora un’immagine sul retro della copertina: questa volta è una foto della band dove si vede Guy con gli occhi chiusi, come se stesse già da tutt’altra parte, lontano dai suoi compagni.

Dopo pochi mesi verrà pubblicato l’ultimo disco sulla lunga distanza “The Ruby Sea”, il lavoro meno riuscito della loro carriera; ancora un tour documentato dal monumentale doppio live “The One That Got Away”. Poi è la fine inevitabile della corsa, senza alcun ripensamento futuro: ed è un peccato.

Ad Maiora.

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