Thunder è stato un gruppo londinese di blues-rock classico settantiano, profondamente ispirato dalla cordata Cream/Led Zeppelin/Free/Bad Company/Whitesnake che ha marchiato a fuoco la stagione più feconda del British Blues, dalla quale questo quintetto ha inteso pescare senza remore stilemi e soluzioni musicali, senza preoccuparsi troppo di essere originale preferendo piuttosto curare compattezza, energia, freschezza, entusiasmo, equilibrio, grinta, potenza, divertimento e feeling.

Non hanno in altre parole inventato niente, ma hanno messo insieme (a mio gusto) grandi ed esemplari dischi e rivelato cospicue doti personali in materia di prestazione vocale (a merito del frontman Danny Bowes), di lucidità ed efficienza compositiva (ad onore del chitarrista Luke Morley), di tonitruanza strumentale unita a simpatia e comunicativa (appannaggio del batterista/umorista Gary James, effigiato in copertina travestito da direttore d'orchestra) e per ultimo pure un sensazionale rendimento negli show dal vivo, spumeggianti e trascinanti.

Il tutto senza tirarsela minimamente, badando al sodo, alla musica e dandoci dentro di brutto con dischi e concerti per venti lunghi, generosi anni, prima di gettare la spugna nel 2009 e disperdersi in altri progetti (salvo ripensarci... le ultime notizie danno per già fissato un nuovo tour di concerti per questa estate).

Il disco in questione rappresenta il loro esordio, datato 1989, sulla scena rock al tempo intasata di AOR e di class metal, i cui eccessivi e tamarri parrucconi ossigenati e i sempre più inespressivi assoli di chitarra a mitraglia fornivano ragioni sempre più plausibili ai detrattori. Al contempo la scena grunge, destinata a soppiantare fuseaux e pose da stallone di lì a qualche anno, scorreva ancora nell'ignoto underground.

I Thunder allora se ne uscirono con questo bel platter di hard rock tradizionale, schietto e diretto, strasentito ma brillante e contagioso: l'Inghilterra sembrava al tempo non aspettare altro, ci si buttò a pesce e "Back Street Symphony" finì per smerciare più di due milioni di copie tra patria e resto del mondo, rimanendo il più grande successo in carriera.

La mia opinione è che i dischi che lo hanno seguito siano ancora migliori: qui la personalità del gruppo (come già detto non certo debordante di suo, stante la tendenza derivativa) si sta ancora formando, un certo tipo di suono Thunder (che vi sarà eccome, anche se probabilmente bisogna essere degli appassionati del genere per "isolarlo") deve ancora focalizzarsi, la produzione migliorare. Resta il fatto che questo è di gran lunga l'album più conosciuto del quintetto, come molto spesso accade alle opere prime.

I brani più affermati, assurti a classici per i fans della formazione e quasi sempre riproposti dal vivo, sono in ordine di apparizione "Dirty Love", poi la title-track e soprattutto "Love Walked in", tutti rocckaccioni senza fronzoli, per i primi due dei quali il compositore unico Morley si fa aiutare dal produttore del disco Andy Taylor... proprio lui, il chitarrista dei Duran Duran, un rocchettaro lungamente prestato alla scena fighetta new-romantic ma che appena ha potuto si è mosso, con molta meno celebrità ma più intima soddisfazione, nell'ambito dell'hard rock classico.

Ultra conservatrice pure la scelta dell'unica cover dell'album: la classicissima "Gimme Some Lovin'" di Steve Winwood e compagni dello Spencer Davis Group. Danny Bowes, col suo stupendo timbro a là Paul Rodgers, la reinterpreta da par suo, la sezione ritmica la appesantisce adeguandola al genere ed agli intenti della formazione, Morley e l'altro chitarrista Ben Matthews (anche organista) picchiano sicuri su Gibson e Hammond.

Per chi ha, dopo attenta osservazione oppure istintivamente, espresso il suo "No grazie, non fumo" a parecchi o forse tutti gli sviluppi della scena musicale fra anni novanta e duemila (grunge, indie, post-rock, rap, industrial, techno, nu-metal, alternative, brit-pop...) immergersi nell'onesto e vigoroso rock classico bluesato dei Thunder dovrebbe essere un toccasana.

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