La copertina curiosamente anni cinquanta, molto rock'n'roll, sta a rivestire il consueto disco di fumante hard rock anni settanta, intelligente e ben guarnito di variazioni melodiche, semiacustiche o funky, eseguito appassionatamente nonché ben scritto e ancor meglio arrangiato dagli albionici Thunder, che provano in questo modo a tener duro anche se la multinazionale EMI li ha appena scaricati: la nuova etichetta sa molto di casalingo ma appunto la produzione ed i suoni, e soprattutto il songwriting, sono più che mai ottimali, anzi irresistibili per chi si appassiona di melodie blues applicate a rumoroso e fisico rock.

Una tantum, la formazione si ritrova pure ridotta a quartetto: problemi fisici per il bassista svedese Mikael Höglund (che poi abbandonerà) ed allora la prima chitarra e principale compositore del team, il mancino Luke Morley, va ad assumerne ad interim il ruolo. Morley è un chitarrista dalle evidenti caratteristiche: ottimo scrittore ed arrangiatore, anonimo solista seppur preciso e competente.

Il contenuto dell'album non si discosta di una virgola dall'ormai consolidato mix di numeri tutti più o meno gagliardamente dotati di big riffs and big sing-along choruses come dicono gli anglosassoni, cioè di grandi giri di chitarra e grandi ritornelli da far venire voglia di cantarci insieme.

Al quarto album (anno 1997) ci si appoggia apertamente ad ormai consolidati schemi compositivi, ma l'inalterata freschezza e capacità di scrittura riescono ad irretire nuovamente le orecchie dell'appassionato, sia esso di vecchia data ovvero appena arruolato... che per l'eterno orfano di Led Zeppelin e Bad Company la scoperta di questo gruppo non può non rivelarsi pari a quella di un'oasi in pieno deserto.

Ed allora ecco gli hard rock risoluti e plantigradi, col riffone a due chitarre (Morley è spalleggiato da Ben Matthews, che mette le mani anche sui tasti d'avorio) a solcare le strofe e poi deflagrare negli accordi pieni sui ritornelli; è il caso dell'iniziale "Pilot of my Dreams", della traccia numero sette che intitola l'album e della numero dieci "Cosmetic Punk", quest'ultima per niente punk ma piuttosto con vaghe sfumature AOR.

Ci sono poi le riletture di dinamica alla Led Zeppelin con quegli spettacolari, repentini passaggi da chitarre acustiche ad elettriche: li ritroviamo in "Living for Today" una delle migliori e giustamente piazzata come traccia due, nonché in "Something About You" più in retrovia. Non possono inoltre mancare un paio di svelte digressioni nel funky, beninteso sempre su solida e virile base blues: caratterizzano i brani "Don't Wait Up for Me" e "Hotter Than the Sun".

Il puntuale rock'n'roll scatenato e festaiolo stavolta s'intitola, in maniera esplicita, "Welcome to the Party", con inevitabile destinazione all'apertura di molti concerti, grazie alla sua carica di immediatezza e incisività. Il resto del lavoro è costituito da intense ballate o semi-ballate blues, che tendono il loro arco emotivo lungo le strofe, percorse dalle chitarre acustiche doppiate ogni tanto dal pianoforte, per poi deflagrare in ritornelloni a voce spiegata, gonfiati dall'organo e cannoneggiati dalle rullate poderose dell'ottimo batterista "Harry" James. I loro titoli: "Love Worth Dying For" in posizione tre, "This Forgotten Town" in posizione nove ed uno dei vertici del disco, la finale ed accattivante "You Can't Live Your Life in a Day", dal refrain dondolante e contagioso.

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