Quel che si definisce da sempre medley altro non è che una traccia composta da più brani, i quali si trovano "cuciti" l'uno all'altro, in modo tale che l'ascoltatore, pur percependo la mutazione della musica, la fine di un brano, non avverta quel vuoto d'istanti che segnasse lo "stacco" tra una canzone e l'altra. Molto utilizzato in passato, soprattutto nei lives, è spesso adottato quale sistema per riproporre in prevalenza, in una rapida carrellata, vecchi cavalli di battaglia a cui dare la possibilità di una rispolveratina, di una veloce quanto breve sgroppata, come farebbe un eschimese nei confronti di un vecchio e fedele cane da slitta, o un pensionato alla domenica con la sua spiderina d'epoca... Prevalentemente, quindi, costituiti da patchworks di canzoni già edite, i medleys non sono quasi mai costituiti da brani interi: si tratta perlopiù di spezzoni, ritornelli, specials, 'quadratini' di canzone...

Molti sono, negli anni sessanta e nei settanta, quei dischi che, pur non prevedendo medleys, non avevano pressoché alcuno stacco tra un brano e l'altro, ed anzi, la previsione di un sezionamento vero e proprio avrebbe compromesso la bellezza dell'opera... Eppure, se si leggevano le tracklists di quegli albums, i titoli delle canzoni non erano l'uno accanto all'altro inframezzati da uno slash, bensì regolarmente uno sotto l'altro, allineati e coperti, in successione cronologica... Eppure di medley si trattava, anche lì... Negli albums di prog-rock, nelle celeberrime suites, composta dei i vari capitoli I, II, III e via enucleando, mai vi fu pressoché distacco tra capitolo e capitolo, paragrafo e paragrafo, sottoparagrafo e sottoparagrafo... E nella musica psichedelica? Quante sono le parti di "Shine On You Crazy Diamond" attaccate tra di esse? E nei primi dischi dei Queen? Quante e quali sono le 'unioni' tra brano e brano, nel segno di una chiccosa ed immaginifica continuità d'intenti e di suggestioni?

Ovviamente, però, c'è stato un uomo che, negli anni settanta, prese tutte queste regole, e... No, non le distrusse, come lasciava intendere la mia frase dall-infelice costruzione, ma le fortificò facendole sue... Estremizzandole,  però, e portandole ad un punto di non ritorno, e di non comprensione, combinando una confusione ed una chiavica meravigliosa ed impossibile da riordinare e nettare. E costui, ovviamente, è Todd Rundgren, il quale, dopo il pazzo, incomprensibile ed incompreso ma bellissimo (forse anche perché incomprensibile ed incompreso) "Something/Anything?", ricomincia all'insegna del caos, suo minimo comune denominatore, in questo "A Wizard, A True Star", naturalmente dell'anno successivo, ma che bisogno c'era di dirlo?

Qui c'è un medley, intitolato "When The Shit Hits The Fan/Sunset Blvd" che non è un medley, ma un'unica canzone, un luminoso e finalmente semplice, e sottolineo semplice, poprock in stile Who. Poi c'è un megamedley di brani già editi e non suoi, dei classici della canzone americana, i doo-woop (da Todd) 'limati' "I'm So Proud" ed "Ooh Baby Baby" ai quali s'aggiunge "La La Means I Love You", un successone d'altronde cantato già dalla sua musa-feticcio Laura Nyro, brano reso ancor più efficace dai suoi splendidi falsetti, ed il southern blues senza basso e chitarre né ottoni "Cool Jerk", solo urla pazzoidi, piano e rullante. E poi c'è "Just Another Onionhead/ Da Da Dali" (soltanto un'altra testa di cipolla?), in cui il suo pop soul pianistico s'accompagna ad una marcetta da saltimbanco con organetto e scimmietta che fa le capriole. Ovviamente, il brano, divenuto "Da Da Dali", impazzisce, per quindi riprendere le vecchie trame.

E più di tutto c'è un disco le cui prime sei tracce non hanno alcuno stacco l'una dall'altra: la prima è un'intro, una specie di anthem ed un brano che verrà riproposto (con un titolo diverso ma simile) più avanti; la seconda  è un estratto dal musical di Peter Pan ed è suonato come se Neverland fosse sulla Luna (ma come fa Todd a suonare così bene il pianoforte con quei guanti d'astronauta?); la terza è un instrumental nonché plasticoso giocattolo saltellante sul suo solito splendido pianoforte, da cui si possono evincere le sue già allora enormi potenzialità di producer; la quarta, un rock sghimbescio senza collegamento tra il ritmo del cantato e quello della musica; la quinta,  un folle rockblues tutto bass guitar, urla in falsetto stridule come quelle della supplente di terza elementare che mi strappava le figurine, e paperelle analogiche che le spremi e fanno 'qua-qua'. Ovviamente, per finire in bellezza, si chiude il "finto non-medley" iniziale con una serie incomprensibile di urla simil-animalesche (sembrano macachi) dal titolo "Dogfight Giggle" (e che c'entrano i cani coi macachi?)... Musica buona, ma cosa c'è da capire?

Ho soltanto esaminato i medleys e già sono un po' a corto di lucidità... Ed al pensiero di quanti sono gli stili, le influenze, le "sbavature", le digressioni, le "scappatelle" di Todd, all'interno di una singola canzone, prima verso uno stile, poi verso l'altro, c'è da concludere che tutte le sue canzoni sono dei medleys... Così è per "Zen Archer", che parte come un valzer in falsetto, che ha un ritornello da canzone per falò californiani, che ha un incedere degno dei più famosi brani dei Supertramp e che gode di ottimi momenti dediti a vocalizzi stratificati in cui l'atmosfera si fa soffusa e l'aria rarefatta...  O per la finale "Just One Victory", che parte che sembra un pezzo gospel, che vira verso il suo pop, che diviene una ballad...

La molteplicità di stili, la disomogeneità, affiorano ancora in "Hungry For Love", rhythm and charleston, in cui Laura Nyro si è trasformata in Liza Minnelli, nella strumentale (e pressoché povera di spunti) "Flamingo", od ancora in "La Feel Internacionale", versione simile ma diversa dell'intro, simile al prologo di un rock musical (com'è che uno come Todd non ne ha scritto nemmeno uno?), in cui in realtà il maghetto altro non fa che anticipare il disco d'esordio - naturalmente dell'anno dopo ancora - della sua seconda band, gli Utopia.

Meno male che qualcosa di più lineare c'è, come nel soul pop vecchio stile di "You Don't Have To Camp Around", di un solo minuto, o come la gradevole, 'collaudata', magari non ispiratissima ma valida "Sometimes I Don't Know What To Feel" (e figurati io!), nel piano e voce di "I Don't Want To Tie You Down" e nel coinvolgente power pop in chiave Who, tutto chitarre e cori, di "Is It My Name?". Menzione d'onore per l'eccellente "Does Anybody Love You?". E' quando fa il ragazzino coi capelli lunghi ma con l'aria da bravo ragazzo, 'innamoratino' della ragazzina che prende bei voti a scuola, che Todd mi fa più simpatia, ma forse è la semplicità di quelle melodie, a farmelo gradire...

Questo disco non è meno pazzo di "Something/Anything?" (titolo che ha la stessa perfetta forma del titolo di un medley, persino con lo slash nel mezzo), ma è semplicemente meno bello. Un po' meno bello. Oramai, però, Todd Rundgren è un mago, un'autentica stella (se lo dice anche lui nel disco, e chissà se magari la casa discografica gliel'ha imposto, 'sto titolo), e quindi, come ogni artista riconosciuto per la genialità, è pressoché talmente libero d'esprimersi da essere rimasto prigioniero della sua troppa libertà, da vagare tra una riva e l'altra di quel suo mare di note, in preda alla corrente, ad ogni corrente possibile. Meno male che, dall'anno successivo in poi, la "quadratura" di una band, il valore di una "ciurma" lo costringerà quantomeno a mantenere uno stile compositivo unico, o a ridurre il campo a meno generi, a tenere una rotta...

A volte, infondo, avere un'unica direzione non è per forza sintomo di prevedibilità, di inaridimento, di stanchezza o di accomodamento sugli allori... A volte una direzione la si deve prendere, e basta... E poi l'attività solista non diminuirà di molto... E lì ci si potrà ancora sbizzarrire... Chi fu che disse che non c'è vento favorevole per chi non sa dove andare? Chiunque sia stato, non aveva tutti i torti.

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