Cantano la malinconia di una singola giornata, quella virgola che è saltata, l’accento che avrebbe dato tutt’altro senso. Uno scherzo del destino, un giro a vuoto di mosca, un affondo mancato. Mi ricordano com’è futile, da adulto, ogni vaneggiamento adolescenziale. La posa seria delle labbra salate di Anne. Quello che non so se ho.

Solo dopo l’Australia è la loro patria accogliente, come il miraggio più desiderato da cui non vorresti mai evadere. Un liquido accogliente. Melbourne, Eastlink. E poi c’è il soprano di Elizabeth Mitchell con cui devi fare i conti. Così meravigliosa nella rotondità della sua pelle bianchissima e quella cosa pulita che è la sua voce. Come se le “grandi bagnanti” impressioniste, d’ora in poi, sì, avessero anche una voce. Più di un invito contingente. Il suo canto lavora sulla trasparenza di vetri pieni di gocce di pioggia, con una grazia sconsolante, elettrica. E non la puoi classificare, tant’è sfuggente, se picchia o si libra.

Poi la chitarra surf e perfezionista di Zachary Schneider, che ama moltiplicare gli effetti lungo i singoli riff, il basso profondo di Lehmann B. Smith, discreto alcolista, la condiscendente batteria di Ashley Bundang. Bagliori del velluto, eleganti voli di rondine, moine al posto di discorsi. La ricerca di un linguaggio proprio ma retrospettivo. Indie pop sofisticato e tuttavia sempre leggero; minimi elementi synth-pop di sfondo ad un art-rock casto, virato dream pop, con qualche trascendenza neopsichedelica, ma sempre disposto a tornare su di un piano concreto. Mazzy Star, Belle & Sebastian/ Camera Obscura e, in più, il loro “totalmente mite” tratto solubile.

La Mitchell cantautrice scandaglia tanto le relazioni quanto l’indipendenza con volontà proba. Il suo romanticismo non consola affatto; assomiglia, al meglio, a un incontro inaspettato al negozio dei cibi scaduti. Mentre una radio scassata ritorna, a tratti, in sintonia: "Non sono niente per cui vivere / Non sono niente per cui morire". Canta, senza incolpare nessuno, se non sé , dei propri difetti e debolezze.

Gli arrangiamenti di Schneider e la produzione di James Cecil (Architecture in Helsinki) sono lungimiranti; così il lirismo evocativo delle fragili melodie muove, una volta delineate le atmosfere, a quasi perfide regolarità, calamitando indecifrabili sospiri al chiaro di luna.

Subito colpiscono "Today Tonight" (una pressappoco felice, umorale, frenesia funky che si regge su una strana coerenza), "From One Another" (inviluppi eterei su un pezzo cadenazto e scampanellante), ”Working Like A Crow" (dalla sottile scansione blues). "Ho appena realizzato / Sono stata sott'acqua tutto il tempo / Respirando l’aria dentro di me" recita Underwater” e lascia svanire le ultime tracce del desiderio che ti trascina al di fuori di te. Ma, per respirare, dovremo per forza tornare a galla, scorgendo il colore di quell’acqua meno verdastro e profondo. "Down Together" è l’epilogo steso come un’ombra nè refrigerante nè rassicurante: ”Nel tempo sprecato il futuro sembra luminoso/… /Mi arrendo/ Non voglio restare dove gli altri si sono bloccati”.

Troppo sublime per essere la descrizione di un giorno di meri fallimenti (leggasi “di merda”), troppo poco felice per non essere ovattato come una giornata semplicemente persa. Rimandando a un tempo successivo.

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