1. Parte colloquiale della recensione, la quale funge da premessa.

A me mi (sì, a me mi) piace la musica-anni-ottanta.

Che ci devo fare?

Soprattutto quando è immediatamente riconoscibile, quando il suo esser datata è parte della sua essenza; quando il fruscio e lo scricchiolio della polvere sul vinile aggiunge una texture in più al sound già di per sé sublime.

E quando mi viene voglia matta, ogni tanto accade, di ascoltare la più bieca e lenitiva musica-anni-ottanta (di quella che si sente e si deve sentire che è anni-ottanta!) e mi sono già sfinito

con “Siberia” dei Diaframma,

con “Tin Drum” dei Japan,

con “Black Celebration” dei Depeche Mode,

con “Bad Moon Rising” dei Sonic Youth,

con “Rio” dei DuranDuran,

con “Metamatic” di J. Foxx,

con “Replicas” di Numan (sì lo so, è del 1979),

con “Illustrated Musical Encyclopedia” di Sakamoto,

con “Desaparecido” dei Litfiba,

con “Vienna” degli Ultravox-senza-punto-esclamativo,

con “Tangram” dei Tangerine Dream,

con la colonna sonora di “Blade Runner” di Vangelis,

con il Battiato che sta tra il cinghiale bianco e i mondi lontanissimi (il che non fa mai male),

con eccetera,

le strade sono due:

1) o torno indietro di qualche anno, per attingere alla musica-tardo-anni-settanta (niente prog per carità!, che è quanto di meno sound-anni-ottanta si possa reperire registrato su supporto analogico) che però suona già anni-ottanta;

2) oppure cerco altra musica-anni-ottanta di quella che si sente e si deve sentire che è anni-ottanta.

In questo caso, nel ricercare spasmodicamente della musica-anni-ottanta ho trovato, nel disco d’esordio dei belga “Twilight ritual”, anche della musica-tardo-anni-settanta.

Di primo acchito, il nome della band non mi piace: sa troppo di darkettoni con le t-shirt nere e i capelli lunghi unti.

E invece…

E invece è un concentrato di musica-anni-ottanta di quella che si sente che è-anni-ottanta, ma con i piedi ben saldi nel più cupo roccia-crauti à la Klaus Schulze del decennio antecedente.

2. Parte seriosa della recensione.

2.1 Descrizione generale (nei più tetri sobborghi della New-Wave)

Il duo “Twilight Ritual”, composto dai belgici Geert Coppens e Peter Bonne, compì il proprio debutto in sordina nel 1982, col l’album —all’epoca distribuito solo su cassetta— “The Ritual”. Ma la loro consacrazione (??) avvenne con l’LP “Rituals” di quattro anni dopo.

Se l’originalità in fatto di titoli non sembra essere il loro forte, lo stesso non può dirsi della loro musica, la quale è una calibrata miscela di musica cosmica alla “Irrlicht” e/o “Zeit”, di corvina malinconia di stampo “Amon Düül” algidamente sublimata attraverso il ricorso a sonorità smaccatamente synth e di ritmi immediatamente orecchiabili che difficilmente potrebbero mancare di stancare anche il più motivato ascoltatore.

2.2 Intermezzo: momenti di lirismo (veramente ingiustificato)

Questa fosca miscela immerge il fruitore in una atmosfera da Gabinetto del dottor Caligari, dove la frenesia della follia e il turbinare delle ombre lasciate per lungo tempo sopite può finalmente scorrere attraverso i padiglioni oculari, penetrando nei più reconditi anfratti dello sconfinato cosmo interiore. Laggiù, in quella caverna della coscienza, un rituale di immonda ferocia si sta consumando a vostra insaputa ormai da secoli. Questo rituale crepuscolare, un tempo obliato, riaffiora in voi, ascoltatori pronti a recepirlo. E a presiedere a questo rituale vi sono i due aruspici del crepuscolo: Coppens e Bonne.

2.3 Descrizione particolareggiata dei brani: fatevela da soli

1) “Splintered Images Of Oz”

2) “Surrounded”

3) “Webb-Men”

4) “They Are We”

5) “Ever Changes”

6) “Fading Me”

7) “A Chrome Entrance”

8) “Elegy”

9) “Up To Now”

10) “Filters Of Density”

3. Conclusione

Vi sono dischi i quali hanno bisogno di molti ascolti per far emergere l’inesauribile ricchezza che portano in sé. Dischi che suonano entro di noi in modo esponenzialmente amplificato quando li si riconosce propri: quando, in altri termini, li si conosce a memoria. Solo così, solo conoscendone istintivamente lo sviluppo, se ne può apprezzare ogni dettaglio e cogliere l’atmosfera generale che essi lasciano indelebilmente impressa in noi.

In questo caso avviene proprio l’opposto.

Se sin da subito le tracce ammaliano l’ascoltatore ben predisposto, portandolo per mano sino alla fine, ad un secondo ascolto già l’attenzione si sfalda, e facendoti sentire più trascinato che condotto.

La situazione, infine, peggiora drasticamente con il terzo ascolto, oltre il quale vien da rinunciare ad andare oltre.

Pertanto, vi consiglio di ascoltarlo per intero una volta.

Ma una volta soltanto.

P.S. Nessun darkettone con i capelli lunghi unti è stato maltrattato né prima né durante né dopo la stesura di questa recensione.

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