Alcuni di voi ricorderanno perché nella periferia grigia di lamiere di un generico, putrido Belgio, Dries smontava dal custom nello spiazzo dinanzi alla prefabbricata magione di un suo ex compagno di corso in Lettere, tale Big Dick. Big Dick era il frontman degli Harry Mulisch: Harry Mulisch dal massimo scrittore olandese. Dries era il più celebre scrittore belga vivente, nondimeno batterista dei The Feminist, la band garage punk degli handicappati devianti.
Non per era una visita di cortesia si era scomodato Dries. Alla battaglia delle band per ambiziosi eroi locali punk, i The Feminist e gli Harry Mulisch avrebbero portato i loro cavalli, due brani per fatalità intitolati Deep Fish entrambi. Dries rivendicava l'esclusiva del titolo per i Suoi, forte di quella borghese volontà di appropriazione che già l'aveva precipitato nella dissoluzione voyeuristica più cinica.
Resterà indimenticabile, a stemperare la tensione della trattativa al tavolo di Big Dick, la digressione sul suo appellativo. Sentendosi incalzato, Big Dick richiamava la concubina, ossuta tossicodipendente, dal cantuccio in cui era rintanata, e la sollecitava a sollevarsi il vestitino per mostrare all'ospite il merito di cotale e cotanta fama. La scena successiva, quando ci si sarebbe aspettati una soggettiva di Dries, ci portava con Dries e Big Dick in una gocciolante, morbida cava di trachite rosa, dove fiero e solenne dichiarava il minatore, con tanto d'eco: «Questo l'ho fatto io. Con il mio cazzo».

Mi è capitato a volte di dire per scherzo che questa sequenza di Ex Drummer (di Koen Mortier, 2008) fosse la mia preferita della Storia del cinema, quando, più realisticamente, è solo la mia preferita degli ultimi vent'anni. Ritrovo oggi una simile visione d’anfratti in Butt Boy, scritto, diretto e interpretato da Tyler Cornack.
L’intelaiatura sarebbe quella di un thriller poliziesco archetipico, con i dovuti approfondimenti sulle opposte vicende del detective Russell e del maniaco criminale Chip, annodati dal vizio dell’alcol. Chip è l’archetipo dell’insospettabile, impiegato I.T. dalla vita piatta, moglie e figlio in villetta. Russell è l’archetipo del detective rockstar dai modi cagneschi; la perdita di un figlio piccolo, misteriosamente scomparso qualche anno prima, lo ha lacerato, e ora lo vediamo escluso spiare dalle finestre la nuova vita della sua ex compagna. Lo sguardo di Cornack ne restituisce impassibile lo squallore in tratti essenziali.
Per i tiri che il destino non fatica a giocare nelle piccole comunità, Chip e Russell avranno modo di entrare nelle rispettive vite, diventare confidenti, lasciarsi e ritrovarsi nella cronaca.
Nell’ufficio di Chip è la giornata dei figli degli impiegati in visita. Si organizza un nascondino, e un bimbo non è più ritrovato.
A condurre le indagini è Russell, evidentemente coinvolto sul piano emotivo. I suoi sospetti si concentrano ben presto intorno a Chip, ma l’ipotesi sulla dinamica del delitto si rivela assurda, o meglio, paranormale. Non c’è la piacioneria di un Dylan Dog, disegnato in un mondo in cui il paranormale sia normale, dietro la tenacia con cui Russell segue la pista dell’impossibile fin dentro la sua più vibrante e maleodorante cavità. Gli Stati Uniti di Russell sono quelli reali, la biologia funziona come deve. C’è piuttosto il pragmatismo di chi si sentirebbe altrettanto pazzo a contemplare l’idea che qualcosa o qualcuno possa scomparire in un puf nel nulla, sia esso un telecomando, una targa premio, il pezzo dalla forma ammiccante di un gioco da tavolo, un cagnetto di razza Yorkshire o un bambino.

È della realtà di Chip/Cornack e di certo cinema indie che Russell si trova costretto a esplorare gli orifizi più reconditi. Pertugi che possono allora assumere le proporzioni di antri per postmoderne discariche.
Chip ha scelto di assecondare lo status del patetico perdente con un masochismo che Freud chiamerebbe carattere anale ritentivo, portandolo all’estremo, con la concupiscenza maniacale della sconfitta. Cornack ha scelto di farne non una metafora, ma un’allegoria: quindi di portare sul piano letterale, in spregio del realismo, i due termini coinvolti. La riuscita è, per quanto grottesca, più efficace di quanto ci si aspetterebbe, complice la bravura degli attori, da caratteristi consumati. Così l’esplosione di Chip/Cornack assume il carattere di paradigma del suo cinema, in cui l’autorialità debba troppo spesso soccombere per mancanza di mezzi al genere canonico, incarnato in Russell; in un panorama che vede l’Industria, che di mezzi ne dispone per milioni, cercare metafore tanto gradite quanto più palesemente dichiarate (il tripudio agli Oscar di Parasite lo scorso anno basti a dimostrarlo), o perdersi anch’essa in sterili quanto dispendiose rielaborazioni del cinema di genere.

Con questa dichiarazione di resa, che peraltro non sfigurerebbe per qualità (non certo hollywoodiana) a confronto con certa sciatteria da roster Netflix, Cornack ha realizzato il suo modesto gioiellino, il suo Qualcuno volò nel buco del culo.

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