Un ballo prima dell’apocalisse ?
Sì.
Ma che sia breve ed intenso, un dolce e struggente volteggio sulle punte e non, di abbandono.
Di ricordi.
Di estasi.
Questo ed anche altro sulle emittenti stordenti di MTV ed affini, dove quel video clip di Dancing with Tears in My Eyes trovò quel singolare spazio tra le tante ( e diciamolo …) amenità musicali proposte all’epoca.
L’appuntamento con l’Apocalisse era fissato per la Mezzanotte, ma poteva essere diversamente, quello era ed è sempre stato l’orario ideale per questo genere di cose; Armageddon, vampiri risorti da fosse maleodoranti e lupi mannari americani trapiantati a Londra. Ma qui Ure & C. si superarono, si portarono dentro una valigetta in formato bignami tutta quella decadenza della letteratura di Edgar Allan Poe, l’immaginifico più cupo di Carl Theodor Dreyer, l’elegia romantica dei cugini disadattati androidi ed ex punk di Foxxiana memoria e con l'aggraziata mescola di tutti quei saporiti ingredienti si convertì il tutto alla fede più integralista e New Romantic.
Era proprio quel trasporto di ultimo desiderio, quel dolce calar del lenzuolo sulla propria esistenza. Ombre e polvere prima di sparire per sempre.
L’ attimo prima di scomparire in quel bagliore bianco ed accecante.
E ci siamo anche capiti che questo ultimo ballo era qualcosa di bello e strano. Un abbraccio forte prima di implodere con la follia del mondo attorno, non era certo la danza prima dei Corn Flakes e di tutti i giorni di Wang Chung e tantomeno The Politics of Dancing di Re-Flex . Gli 80’s, anni ambigui e perversi, l’insostenibile leggerezza dell’essere pop di Easy Lady, i fianchi ondeggianti e palestrati della Isla Bonita in infelice convivenza con l’esprit New Wave e decadente, che lento e tra ombre era lesto ad insinuarsi. Quella madeleine che aveva quel retro gusto agrodolce e che continuava a rotolare sull’emisfero pop dai tempi di Hiroshima Mon Amour.
Ma Lament è anche altro.
E’ una immersione profonda nella Stonehenge del Nord, in quel misticismo della copertina, che inizialmente doveva essere completamente nera. E invece per ricordare ancora la storia dell’ uomo prevalse la scelta di raffigurare quelle millenarie pietre erette sull’Isola di Lewis in Scozia, ribattezzate dagli abitanti come le pietre na fir bhrèige, ovvero i “falsi uomini” .
Mano nella mano, assaporando il passato, mentre beviamo questo dono per voi. Mano nella mano, assaporando il passato, mentre beviamo da tutto questo.
E’ visione di terre dimenticate, di divinità celtiche millenarie che spettrali si aggirano sugli scheletri di un’Europa che verrà presto saccheggiata della sua Bellezza. La strada verso i totalitarismi era stata appunto già tracciata, prendendo forza dalla distrazione delle masse, avvolte in tutta quella glassa patinata e oceani di pop corn. Ma c’è un filo di speranza, stiamo accanto alle Vecchie Pietre Noi ed una Dea celtica sta con noi. E piange per Noi e per le nostre agonie, ( lo dicono i testi! ).
Tutto l’incredibile spleen di questo album è ridotto all’essenza nella vibrante A Friend I Call Desire, brano portante e manifesto che farà scuola e fortuna di tutta una sbandata generazione di malinconici sintetici, pronipoti di Connie Plank , di algidi performer come Martin Gore che da questa generazione di originali cantastorie cyberpunk e col senno di poi new romantic coglieranno essenziali ispirazioni.
E quella corsa affannosa nella metropoli in spegnimento per raggiungere l’amata per l’ultima volta è tutta nel tappeto sonoro dei cupissimi synth di A Friend I Call Desire, tra palazzi e strade che sono sul punto di imbiancarsi nel nulla, di sogni che stanno dissolvendosi per l’eternità, tra angeliche ed intrecciate femminili vocalità, abbiamo barattato la nostra ragione con i nostri desideri, il nostro intelletto con le nostre voglie, la nostra anima con miseri beni? E, meglio ancora, sappiamo almeno di aver perso qualcosa?
Insomma, questi anni 80 non sono stati proprio una passeggiata.
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