Che cosa erano gli anni ’80? Che fine hanno fatto gli anni ’80? Cosa resterà di quegli anni ’80? Ma soprattutto, cosa furono gli anni ’80 per chi ha avuto la casualità di nascere in quella decade?
Rispondo personalmente: gli anni ’80 me li ricordo poco, talvolta mi appaiono nel mio perpetuo pensare solo spezzoni di azioni e ricordi di sogni sognati all’epoca: e i sogni dell’infanzia non te li scordi mai, perché sono quelli che ti accompagnano per sempre, quelli che ti fanno prima sognare, poi ti fanno crescere, diventare adolescente, poi ad un certo punto ti ingannano, e infine finisci con l’odiarli perché ti accorgi di come eri diverso da quando li hai visti e vissuti in quel sonno di diversi anni fa, ma forse la fine dei giochi arriva quando ricominci a giocare veramente, giochi con la fantasia, perché è tutto ciò che ti è rimasto della tua personalità primaria, e quei sogni da nemici quali erano, finiscono col farti compagnia come un anziano fido bracchetto con cui dialogare dei bei tempi che furono, e che forse non furono così belli come nei ricordi, ma appunto, i ricordi nobilitano tutto, anche il passato più indegno.
Negli anni ’80 la mia realtà non si distingueva particolarmente dal sogno, i film cominciavano alle 20,30, si guardavano per lo più su Italia uno. Il rito d’apertura era sempre lo stesso: una signorina di bell’aspetto e dai modi affabili presentava la pellicola che sarebbe venuta da lì a breve, poi ecco partire il bumper: un raggio di luce colpiva il logo della sesta rete (un uno incorniciato in un rombo [tutt’ora vigente]) disintrecciandosi in un prisma colorato che ricorda la cover di “Dark side of the Moon”, poi il logo si abbassava mostrando il proprio bordo e per ben tre volte appariva la scritta “FILM” in maiuscolo: in questa scritta si potevano scorgere tre diversi spezzoni, il primo era tratto da “Highlander”, si vedeva chiaramente Christopher Lambert verso il compimento finale del giro, il secondo mostrava una sorta di astruso veicolo aereo districarsi in mezzo alle fiamme, e l’ultimo non me lo ricordo.
Ho ancora nelle orecchie quella musichetta melensa e da rilassamento clienti in un supermarket (o peggio in un hard discount) che accompagnava la sigla: di per sé sarebbe orribile, ma il tempo è riuscita a nobilitarla.
I film si dividevano in due grandi fazioni, quelli “d’avventura” e quelli “di famiglia”, ed entrambi bene o male non riuscivo MAI a finirli di vedere, siccome l’orario di coprifuoco era solitamente marcato tra le 21 e le 21,30, quindi bene che vada, spot o meno, riuscivo a vedermi almeno mezzoretta buona di film: e all’epoca le mezz’ore duravano tanto, il tempo durava tanto.
Attualmente un mese mi dura come una mezz’ora di quei tempi; sto invecchiando e l’idea non mi piace per niente.
Oggi è domenica, la domenica non mi mette mai di buon umore, da sempre, o almeno da quando frequentavo le elementari, perché ero conscio che il giorno dopo avrei ripreso il ciclo della durezza della vita quotidiana, e nell’aria vi svolazzava come un piccione (leggi pantegana con le ali) in fase di decesso imminente la fine della pienezza della “vacanza” dagli obblighi scolastici (insomma… neanche tanto, visto che ricordo ancora interi pomeriggi di tortura addietro a quei maledetti compiti di matematica, con le mani che mi fumavano); ebbene, piantiamola con la nostalgia e cominciamo con la recensione vera e propria.
Si diceva, appunto, che negli anni ’80 e primissimi ’90 i film si dividevano (li dividevo) in due grandi correnti, quelli “di famiglia” e quelli “di avventura”. In quelli “di famiglia” si inserivano tutte le commediole in cui vi era da ridacchiare alla maniera degli adulti oppure dove tutto era incentrato sul sentimentalismo più stucchevole; i film, invece, intesi “di avventura” erano tutti quelli dove vi erano combattimenti all’ultimo sangue, militari, spade laser (spade laser: avete capito di cosa sto parlando? :) Si, proprio di quella trilogia…), navicelle spaziali, paladini della giustizia, eroi intrepidi, lame sguainate… insomma, un potpourrì di sana azione.
Mi immaginavo protagonista di una storia avventurosa, l’eroe di un film, il supereroe per eccellenza, fortissimo e armato fino ai denti (ma come ero scontato!); per entrare più nella mood del soggetto mi sarebbe servita una colonna sonora di eccellenza, e cosa poteva può andare meglio di quella pazzesca overdose adrenalinica che è la musica dei Vicious Rumors?
I Vicious Rumors crearono nei tanto (da me) elogiati anni ’80 quel gioiello grezzo di rara potenza; grezzo più di un motociclista ubriaco di Southern Comfort e nafta messicana a basso prezzo.
“Digital dictator” è il secondo disco della band californiana di Alameda, il primo con alla voce quella macchina da guerra che risponde(va) al nome di Carl Albert e che a detta di Geoff Thorpe -chitarrista e leader- il miglior vocalist con cui abbia mai collaborato.
Il vinile vede le bacheche dei negozi il 9 febbraio del 1988, gran parte (o la totalità) del materiale è stato registrato qualche mese prima, quindi nel 1987, contando che all’epoca i lavori di mixaggio e di stampa si dilatavano notevolmente. Ah! La finta velocità degli anni ’80!
La coppia di chitarristi Geoff Thorpe e Mark McGee firma tutti i dieci brani che compongono l’intera opera.
Apre l’opera l’epica “Replicant”, introduzione strumentale della durata di un solo minuto, velocità media che accelererà inaspettatamente con la seguente traccia, la title track, così forte e improvvisa da levare il respiro; l’atmosfera che si respira è puramente orwelliana, il testo ascoltato una ventina d’anni appare come una profetica Cassandra che tratteggia i tempi odierni: questi tempi di depersonalizzazione, incomunicabilità e oppressione delle virtù del potenziale umano, violentemente osteggiate dall’elettronica sempre più invadente e indiscreta: il vero dittatore digitale, invisibile e inattaccabile; ma la violenza, quella sonora -se pur abbastanza controllata- e gli acuti non si fanno da parte sulla traccia successiva, “Minute to kill”, mentre poco più lenta è “Towns on fire”, la quale si apre con una batteria marziale e un armonioso e e allo stesso tempo scellerato disegno delle due chitarre che si intersecano in una meravigliosa decorazione fantascientifica. Personalmente trovo melodicamente molto accattivante il ritornello, con l’urlo battagliero dei backing vocals del titolo della song.
Al grido di “alright!” parte l’assolo introduttivo di Geoff in “Lady took a change”, parte più meritevole di questo ennesimo pezzo muscoloso, ma mai nerboruto quanto “Worlds and machine”, che si apre di sorpresa con un coro di chitarre pulite, solita perizia tecnica sopraffina; introduzione lenta e leggera, che si tradisce dopo neanche un minuto, quando il ritmo si fa più serrato e comincia la cavalcata di potenza e distorsione che contraddistingue diverse perle di questo lavoro: ritornello molto melodico, poco aggressivo, certamente non alla White Lion, non alla Bon Jovi, non glam o hair (non sia mai!), ma più leggero di quanto si possa immaginare ascoltando il resto della canzone.
Il film va avanti, si arriva a “The crest”, che si apre con un possente riff di bicordi che trova continuazione per tutte le strofe: continuazione e ripetizione.
Come un fulmine arriva poi “R.L.H.”, pezzo da mosh con quella che a parere personale è la migliore delle linee vocali di tutte e nove le canzoni (nove intendo appunto le canzoni in quanto cantate, e non dieci, essendo la prima un pezzo strumentale).
Siamo verso la fine, a “Condemned”. “Condemned” si apre con strani suoni, quasi dei “rumori viziosi” ;) volendo parafrasare il monicker della band, è il pezzo più orecchiabile di tutto l’operato: il ritornello è addirittura, ancora più easy di quello di “World and machine”, se pur nonostante tutto si riconosce sempre e dovunque il marchio tagliente di fabbrica di Geoff e soci.
L’onore della chiusura è dato a “Out of the shadow”, con una potente rullata a far iniziare le danze e si chiude con un’altrettanto sfoggio di vigorosità, ma da parte di Carl che lancia l’acuto più alto, potente e lungo di tutto “Digital dictator”.
Trentanove minuti scarsi, trentanove minuti che non arrivano a quaranta, ma trentanove minuti totalmente guerrafondai, di una line up completata Dave Starr e Larry Howe alla parte ritmica, che con un basso mitragliatore e una batteria cingolata non lasciano più di un minuto di scampo all’ascoltatore.
Line up che purtroppo appare da poco orfana del (futuro) rinomatissimo guitar hero Vinnie Moore (più avanti in UFO, Alice Cooper, e stimato solista virtuoso delle sei corde), uscito dalla partita assieme al cantante Gary St. Pierre dopo il rilascio dell’opera prima “Soldiers of the night”.
Tutt’ora mi chiedo come avrebbe suonato “Digital dictator” senza Mark McGhee e con Vinnie ancora a dare le spalle e l’anima agli infiammati Marshall dei VR.
“Digital dictator” rappresenta la punta di diamante dell’intera produzione targata Vicious Rumors: un punto alto che i nostri eroi non riusciranno più ad eguagliare in quanto genialità mista a perizia tecnica che però non appare mai invasiva e noiosamente un esercizio di autocompiacimento.
Se cercate un disco che rappresenti alla perfezione che cosa fosse l’heavy metal e l’heavy metal statunitense l’avete trovato, è questo. Se ne cercate uno che abbia il sapore di b-movie pieni di centauri perennemente sudati e con la lunga chioma al vento, che profumi di whisky marci, fantascienza spicciola e azione a non finire, bèh, non vi serve andare tanto distante: l’avete appena trovato!
Purtroppo nel “Bel paese” questo lavoro è di scarsissima reperibilità; non è mai stato stampato se non su vinile e le copie esistenti all’interno della penisola e al di qua delle alpi vengono vendute a prezzi da capogiro: sarebbe venuta l’ora, oltremodo, di elevare il tutto alla gloria della DELUXE EDITION, con tanto di rimasterizzazione dell’originale e allegato cd con demo, provini e live inediti del periodo; il tutto, possibilmente condito da un interessante libretto che ne racconti l’epopea.
Una piccola chiosa su Carl Albert; Carl non è stato il secondo vocalista del quintetto, ma bensì il terzo, se pur indubbiamente il più importante per diversi motivi, il più amato, il più carismatico e il più dotato tecnicamente ed esecutivamente. Prima di lui e di St. Pierre, il microfono apparteneva ad un tale Mark Tate di cui però non è rimasta traccia ai posteri, nemmeno sulle due demo (che posseggo) del 1983, essendo il nostro, uscito dalla squadra l’anno prima.
Carl farà in tempo a registrare altri tre album, un EP e a far uscire un live registrato a Tokyo, prima di andarsene via dalla band… definitivamente. Purtroppo verrà a mancare prematuramente il 22 maggio del 1995, nove giorni dopo il suo trentatreesimo compleanno, a causa di un incidente automobilistico: qualche mese dopo la sua scomparsa uscirà un “bootleg ufficiale” a lui dedicato, “A tribute to Carl Albert”, con registrazioni dell’ultimo tour da lui eseguito assieme alla band e con l’aggiunta di tre demo: conterrà un paio di pezzi da “Digital dictator”, ovvero, la title track e “World and machine”.
Carico i commenti... con calma