Ah Dislo, Dislo, senza saperlo preparavamo quasi la stessa recensione...

E' troppo bello, troppo...

Che qui tutto rimanda all' imprinting di certa canzone anni 70, al brodo di coltura/pozzo dei desideri dove sguazzavamo in totale, meravigliosa incosapevolezza...

Nel solaio/rifugio pieno di cianfrusaglie la radio sputacchiava (o tossicchiava, fate vobis) certe musiche un po strane, mica sempre però.

I pomeriggi tra noia, giornalini e chissà cosa erano troppo lunghi e troppo azzurri. La tv, nel suo annebbiato bianco e nero cominciava quasi a sera regalando a volte qualche crash.

Il primo crash: un signore voce ruvida e occhi vivissimi che dice: “non mi piace la sveglia”. “Figurati a me”, penso io.

Del resto hai presente la domenica mattina? Quando apri gli occhi per un attimo e capisci che, appunto, è domenica. Niente scuola, niente maestri, niente di niente.

Il secondo crash è invece “una casa molto carina, senza soffitto, senza cucina” e qui che vuoi mai dire? Meglio non starnazzare sulle cose sacre.

Comunque il signore dalla voce ruvida e gli occhi vivissimi si chiama Vinicius de Moraes e assomiglia a certi zii di Paolo Conte (ah zio zio spiega la vita, spiega com'è) o, nel mio caso, a uno che so io e certe somiglianze dicono più di mille parole.

Solo che poi quello che so io non lo sapete voi.. E allora diciamo che Vinicius ha scritto canzoni dai colori chiari, ritmo in essenza e bellezza tout court.

Dalla secchezza di parole priva di ogni luce cosa Montale invidiava a Sandro Penna? Forse “la grazia fulminante”?

Ecco si, “la grazia fulminante”...

...

Vinicius conosceva due trucchetti. Quello di Oreste: “La vedi quella fanciulla? Dalla sua voce farò la melodia, dal suo sguardo l'armonia, poi ruberò la cadenza del suo passo”. E quello solo suo, ovvero: non esiste bellezza che non sia anche triste

Il suo grande disco è “O Afrosambas” con Baden Powell. Talmente bello da essere inraccontabile.

Perché in “O Afrosambas” oltre ai due trucchetti c'è qualcosa che va oltre. Un tuffo nell'origine e nel mito, fate conto.

In un viaggio alle fonti più pure del ritmo la poesia bianca si allea al cuore nero della cultura candomblè. Anche se poi tutto sembra una specie di festa in famiglia o uno strano convegno di antropologi un po' alticci che canticchiano a sera. E' il tocco de Moraes, dilettantismo magico e naturalezza che incanta.

E comunque quando le cose si mischiano succede sempre qualcosa di interessante, non siam forse stati cacciati dal paradiso per un frutto insieme aspro e dolce?

...

Da “Os Afrosambas” qui c'è solo “Canto de Ossanha” e non ci sono parole.

A parte Ossanha, però, niente roba ancestrale, solo carezze e botte di malinconia.

Nient'altro che una chitarra, un appena di ritmo e quelle voci così umane, Nient'altro che il convivio, il ritrovarsi. E quella leggerezza, quella grazia fulminante.

Deve essere primavera o qualcosa del genere...

Ah, su Toquinho chiedere a Dislocation.

Invece per quel che riguarda Maria Creuza, la sua versione di “Chega de saudade” è una delle canzoni che suonerà al mio funerale...

Ecco, qui “Chega de saudade” non c'è ed è l'unico difetto di questo disco.

Trallallà...

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