Warhorse è stato un quintetto hard rock d’inizio anni settanta di durata e riuscita entrambe effimere (più o meno tre anni, concretizzati in due album dalle vendite non molto confortanti), messo insieme dal bassista londinese Nick Simper all’indomani della sua cacciata dai Deep Purple a favore di Roger Glover, su istigazione del nuovo cantante Ian Gillan.

Simper valeva grosso modo Glover in quanto ad abilità strumentale, ma se si allarga l’orizzonte a tutti gli aspetti e possibili contributi, musicali e non, di un componente in seno ad un gruppo, ecco che l’impatto e l’importanza di Glover risultano indiscutibilmente superiori, anzi decisivi per il destino e le fortune dei Purple: Roger è stato da subito, e lo è ancor oggi, l’uomo d’ordine della band, ad esempio colui che tiene certosinamente a disposizione il catalogo delle registrazioni e delle prove così da poter spuntare le idee migliori e farle divenire vere e proprie canzoni. Inoltre è un fonico, sa mettere le mani sui macchinari e condurre una registrazione professionale, ed è pure un produttore, nel senso che ha capacità mediatica, razionalità e metodo, buon senso e praticità, virtù decisive all’interno di una congrega piena di prime donne permalose e pigroni un poco snob quali erano i giovani Deep Purple.

Ovviamente i Warhorse suonavano come dei Purple in tono minore, replicandone per buona parte le caratteristiche e le componenti di suono, arrangiamento e stile: vi era dunque un serrato duello chitarra/organo, con i due solisti Ged Peck e Mark Wilson che sia a livello timbrico che di fraseggio viaggiavano più o meno dalle parti di Ritchie Blackmore e Jon Lord rispettivamente (ovviamente senza sforarli neppure in brillantezza ed ispirazione, al tempo al top). Il capobanda Simper e il socio di sezione ritmica Mac Poole facevano la loro parte, senza infamia e senza lode… alla fine ciò che differenziava e caratterizzava maggiormente il Cavallo da Guerra era il vocione di Ashley Holt, strapotente ma non di rado sopra le righe (l’intonazione ogni tanto viene a mancare), certamente vistoso e spettacolare ma privo dello swing e della fluidità di un Gillan, in ogni caso con una forte componente rhythm&blues sconosciuta a qualsiasi cantante dei Deep (Glenn Hughes escluso, via).

“Red Sea” è il loro secondo ed ultimo disco, uscito nel 1972 e responsabile, date le vendite peggiorate rispetto all’esordio (effettivamente più riuscito) della perdita del contratto discografico e del rompete le righe definitivo. Non è malaccio, ma consiglierei di diffidare da chi spaccia il rock che si faceva nei primi anni settanta come geniale e impedibile quasi a prescindere. Qui non c’è nulla di trascendentale, anche se è sempre piacevole riascoltare registrazioni di quei tempi, con quel non so che di innocente, di schietto e di sperimentale e di appassionato, con le sonorità vintage e il “rumore” del nastro da otto piste e non di più in azione.

Le cose migliori sono la lunghissima “Back in Time”, con un’estesa porzione strumentale nella quale Ged Peck viene lasciato tutto solo a sbizzarrirsi con la sei corde in un assolo free form veramente d’altri tempi, nonché l’ancora più durevole e indulgente “Mouthpiece”, la quale coi suoi cambi di ritmo, break di batteria, psichedeliche divagazioni e voglia di progressive è emblematica di un certo modo “libero” di registrare musica che una volta veniva consentito e promosso (salvo poi la perdita del contratto, come già detto…); Mac Poole ce la mette tutta a tempestare di colpi tamburi e piatti, scassando al solito i cabasisi come in ogni assolo di batteria che si rispetti, ma così restaurando l’irresistibile aria anni settanta che fa tanto piacere, tenerezza e (per chi c’era) nostalgia.

Doverosa ultima segnalazione per la cover… di una cover! Mi riferisco all’italianissima “Uno dei Tanti”, brano a firma Donida/Mogol interpretato nel 1961 dall’”urlatore” Joe Sentieri, rivisitato un paio d’anni più tardi in stile rhythm&blues dal cantante di colore americano Ben.E. King col titolo “I Who Have Nothing”. La riproposta dei Warhorse è in puro stile Vanilla Fudge (seminale gruppo americano di fine anni sessanta che campava di virtuosità strumentali e soprattutto di cover rifatte e stravolte), ossia cori in falsetto a profusione e bordate d’organo.

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