Se dovessi consigliare a chi mi chiedesse un parere un buon libro per l'estate e le imminenti vacanze, in cui si coniuga dell'ottima letteratura con una profondità intrinseca del narrare ed una emozionante ricerca dei significati reconditi dell'esistenza, non avrei troppi dubbi e punterei sul sicuro con "Mentre morivo" di William Faulkner (1932).

Dello scrittore poco intendo dire, osservando a margine come sia stato poco o nulla recensito e trattato sulla sezione libraria del sito, rimandando anche i più distratti alle varie pagine wiki o a siti più tecnici per una ricostruzione della sua tormentata personalità e della sua non meno tormentata vita.

Alcolizzato, uso a frequentare bordelli, perennemente insoddisfatto di sé ed alla ricerca di un successo economico anche piegandosi alle logiche di Hollywood e svendendo il proprio talento per danaro, basti qui vedere in Faulkner nella sua luce migliore: ovvero come il campione dell'americano del Middle West e - mi sia concesso - di una Middle Age compresa fra la crisi del '29 e la seconda guerra mondiale, i cui postumi, dal maccartismo al paternalismo autoritario di Ike Eisenower, si sarebbero fatti sentire per un paio di decenni, parentesi Kennedy a parte (e non è forse un caso che di parentesi si sia trattato, pur con tutte le riserve storiche sulla figura di JFK e sul suo ridimensionamento postumo, per il quale vi rimando dritti dritti a James Ellroy).

Il profilo che maggiormente distingue Faulkner dagli altri scrittori suoi contemporanei, ad apparentemente simili, da Steinbeck ad Hemingway, passando forse per Fitzgerald e per quel Miller tanto amato in questo sito - sta tutto nello sperimentalismo del linguaggio narrativo faulkneriano e nell'attitudine alla creazione di un epos complessivo che abbraccia le sue opere e ruota attorno alle vicende di una immaginaria regione del Middle West - Yoknapatawpha - dove sono ambientati quasi tutti i suoi romanzi.

Sembra nella sostanza che Faulkner veda alla vecchia America con gli occhi dell'indigeno, ma con la sensibilità dell'intellettuale europeo e con uno sdoppiamento fra il narratore - creatore di trame - e lo scrittore - creatore di linguaggi - che moltiplica i piani di lettura delle sue opere, superando molti dei suoi contemporanei ed alcuni dei suoi successori apocrifi, tra i quali mi permetto di segnalare Keruac, e, per filiazione indiretta, lo stesso Bukowsky amato moltissimo su questo sito.

Venendo più da vicino all'esame di "Mentre morivo", accogliendo i suggerimenti di Kosmogabri e di altri lettori, non mi soffermo troppo sulla trama, peraltro alquanto scarna e semplice a riassumersi, che nella sostanza riguarda il corteo funebre destinato a portare le spoglie di una donna - Addie Bundren - dalla casa di famiglia al paese di nascita, accompagnata dal marito Anse e dai cinque figli, Cash, Darl, Jewel, Dewey Dell e Vardaman.

Le oltre duecento pagine del libro trattano di questo, e poco altro, riprendendo - e qui abbiamo prova di cosa sia l'epos di Faulkner - il modello classico dell'Anabasi di Senofonte: dove il rientro in patria (terra madre, terra dove si viene sepolti) non è quello di un esercito sconfitto dalla guerra, ma, più prosaicamente, quotidianamente ma non meno drammaticamente, quello di un gruppo di persone variamente sconfitte dalla vita e messe di fronte alla morte di un proprio familiare, ma anche alla propria impotenza di fronte allo scatenarsi degli eventi, fisici e spirituali, e, sempre prosaicamente, alla propria finitezza rispetto alla macina di quel grande mulino che sono il tempo e la natura stessa.

L'altro aspetto che rende questo libro consigliato è, come poco fa vi anticipavo, lo stile narrativo di Faulkner, che, al contrario, viaggia in direzione opposta all'epos che costituisce il modello della storia: una storia epica, anche se per certi versi intrisa di miseria quotidiana come questa, viene solitamente narrata da un soggetto onnisciente, da uno scrittore che tutto controlla e tutto conosce prima del suo lettore, e che indirizza i personaggi quasi essi fossero dei burattini verso questa o quella direzione.

Il narratore onnisciente, per certi versi, è come il dio della letteratura, e gioca a fare il dio - rispetto ai suoi personaggi - quasi come il vero Dio (per  chi ovviamente ci crede) conoscerebbe in anticipo i destini dell'uomo e di ogni individuo. Esempio classico ne sia Omero, esempio moderno Manzoni: in tutti i casi, siamo di fronte ad un narratore che replica la Creazione, in uno Spazio ed un Tempo conchiusi - o meglio: racchiusi nella carta e nei caratteri del testo -  che sono replica di spazi e tempi infiniti. Curioso - vi faccio notare - che si trattasse in entrambi i casi di soggetti religiosi o legati alla tradizione, ma paradossali apostati e blasfemi nel loro tentativo di replicare Dio!

Tutto questo manca in Faulkner, che frammenta la storia nelle sottonarrazioni ad opera dei vari personaggi del libro, definibile sotto il profilo strutturale come un insieme di monologhi relativi alla medesima esperienza di vita.

Ad un osservatore e lettore distratto la cosa potrebbe essere indifferente, non essendo nuovo, anche in certa letteratura di genere e di certo cinema (prendete "I Soliti sospetti" se siete di palato non troppo raffinato e non conoscete Kurosawa), l'espediente narrativo di descrivere la stessa cosa da diversi punti di vista, relativizzando la percezione della realtà e per certi versi anche la verità stessa, la capacità dell'individuo di decrittare e descrivere in termini oggettivi il reale, dividendolo dal presunto.

Ma non è questo lo scopo di Faulkner, che a mio parere gioca la sua partita su un piano più alto ed elevato, e per questo appunto affascinante: Faulkner non relativizza, semplicemente dilata ed amplifica; non nega la realtà e la finitezza delle cose, non nega la morte e la rovina cui tende questo viaggio; ne moltiplica e ne ridonda il senso, il significato, mostrandoci come, da qualunque parte si intenda leggere la storia, o vedere l'azione dei personaggi, essa descriva la stessa cosa, la stessa vicenda, lo stesso determinismo, lo stesso dramma.

La storia è una, ed una sola. Il che implica che, pur essendo le voci, il personaggio narrante, l'io narrante, è uno solo anche se ha più voci, più modi di manifestare il proprio dolore.

Vi prego allora di riconsiderare il titolo del libro, come controprova di quanto osservato: ed ecco che "Mentre morivo", alla prima persona singolare ed al tempo imperfetto tipico dell'azione in compimento, è riferito all'io narrante, ma anche all'io lettore, sprofondato nella realtà di morte e disfacimento, in un percorso verso la rovina e verso il nulla, di cui è partecipe tutta la natura umana, quantomeno nell'ottica di Faulkner.

Chi ha cominciato a conoscermi e a leggere le mie recensioni ha capito che il mio punto di vista - ed il percorso formativo che vorrei pian piano provare a compiere anche su Debaser, oltre a quello che faccio nella mia vita reale - è antitetico a quello di Faulkner, fondamentalmente nichilista.

Ma penso che sia proprio prendendo contatto, ai suoi massimi livelli letterali, con il pensiero nichilista e con il relativismo dei valori che poi la nostra società replica ad un livello infimo nel quotidiano - basti pensare a certe cose che ho letto dopo i miei commenti a Miller! Ma ho già perdonato - si possa cominciare a ragionare sulla necessità di fondare la nostra vita su qualcosa di diverso e migliore del vuoto così abilmente descritto in questo libro.

Vi auguro dunque buona lettura, e, se non mi rifacessi viva nei prossimi giorni, buona e serena estate! Buttate via i vostri Bukowsky, Miller ed altro ciarpame, buttandovi su Faulkner che non vi deluderà e renderà diversa la vostra percezione del mondo. Fidatevi di me.

Un sereno abbraccio da Fabia!

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