Difficilmente dimenticheremo questo periodo. Clausura forzata, file al supermarket, metri di distanza, bollettini di guerra, mascherine, guantini e sguardi spaesati.

Una lunga, lenta, strisciante melodia di morte che sibila negli interstizi del quotidiano. Un tema portante con le sue molteplici variazioni: la mia compagna armata di Amuchina, le video-chiamate ai miei genitori, le mail che sospendono i laboratori teatrali fino "a data da destinarsi".

La morte. La morte che cerco di contrastare con la mia personale resistenza fatta di libri, dischi, film, giochi con la gatta e pasti con il sorriso sulle labbra. La morte. La morte a cui oppongo la vita.

Il teatro di Shakespeare ha molte virtù e, di queste, due in particolare gironzolano nella mia testolina in questi giorni da bunker coatto: variazioni e contrappunti.

La maestrìa con cui, all'interno di una pièce, il Bardo ribadiva il respiro di un tema - centrale e non - attraverso la sue variazioni e l'abilità con cui lo cuciva sulla stoffa della narrazione mediante il filo di precisi contrappunti.

Lear non è semplicemente un re, ma rappresenta il motivo dell'uomo di potere avviato verso un irreversibile sfacelo, una occlusione - in primo luogo morale - di tutte le facoltà. Mentre cede alla ruffianerìa di due delle sue figlie, Goneril e Regan, dividendo e affidando loro il regno, in un eccesso di ridicola vanità senile disereda e bandisce Cordelia, la sua ultimogenita, che si era rifiutata di adularlo: "il barbaro Scita, o colui che della sua stirpe fa pasto per saziare la sua fame, saranno buoni vicini del mio cuore, e vi troveranno pietà e soccorso al pari di te, che un giorno eri mia figlia".

Nella Tragedia la musica di Lear è ripresa e variata dal conte di Gloucester, anch'egli incapace di discernere la vera natura dei suoi due figli e anch'egli capace di riporre la sua fiducia sulla progenie sbagliata, sul turpe Edmondo (parente stretto di Iago nei lidi di "Otello") a discapito del nobile Edgardo.

La partitura di Lear e Gloucester è quella di uomini anziani ormai incapaci di fare la "cosa giusta", ottuagenari nel corpo e nello spirito che percorrono al galoppo una strada lastricata di capricci puerili e cecità (non a caso il primo s'inabisserà nella follia e al secondo verranno cavati gli occhi).

Il contrappunto al loro motivo è rappresentato dal conte di Kent. Come loro anziano e potente, ma di tutt'altra pasta. Acuto, dalla tempra d'acciaio e leale nonostante le ingiustizie inflittegli, non esita a parlar chiaro al re prendendo le difese di Cordelia: "che cosa pretenderesti di fare, vecchio? Credi tu che il dovere possa aver paura di parlare, allorché la potenza si inchina all'adulazione? L'onore è tenuto alla sincerità, quando la maestà si umilia fino alla pazzia".

E proprio Cordelia porta con sé l'altro macro-tema della Tragedia: ferrea devozione rivestita da dolce fermezza - "ne sono sicura, il mio amore ha più peso della mia lingua [...] io voglio bene a Vostra Maestà quanto comporta il mio dovere; più meno" -, gioventù ammantata di purezza, delicatezza dei modi abbinata alla saggezza delle parole: "perché hanno marito le mie sorelle, se dicono che tutto il loro amore è per Vostra Maestà?".

Questa musica è ripresa e variata sia dal prode Edgardo (che condivide con Cordelia un destino d'ingiusto esilio prima e il riscatto agli occhi del genitore poi), sia dal duca d'Albania che ripudia senza mezzi termini Goneril, sua moglie, rea di tradimento e annesse crudeltà: "la saggezza e la bontà ai vili sembrano cose vili; la sozzura non gusta che stessa".

I contrappunti? La gioventù sanguinosa e senza pietà. La doppiezza e la spregevole condotta di Edmondo; la violenza e la rigidità del duca di Cornovaglia; l'ipocrisia e la lascivia di Goneril e Regan, sorelle maggiori di Cordelia e quasi le sorelle minori, più triviali e materialiste, di quella Lady Macbeth che riusciva nonostante tutto a sedurre il lettore grazie all'oscuro e diabolico fascino della sua perversa femminilità.

Naturalmente, come in tutte le Opere maggiori di Shakespeare, quella che sto cercando di proporre è solo una delle possibili chiavi di lettura per interpretare il "Re Lear" e questo gioco di echi, riprese, variazioni e contrappunti non si esaurisce certo negli elementi più in vista.

Così, per esempio, se i luoghi dove si compiono le peggiori iniquità sono le sfarzose stanze del castello di Lear, la variazione è rappresentata da quelle commesse nell'opulento maniero di Gloucester e i contrappunti sono la solidarietà e la premura verso il prossimo profuse in umili dimore di campagna; se il cieco servilismo dei cortigiani è rappresentato da Osvaldo (maggiordomo di Goneril), la variazione è rappresentata dal personale del duca di Cornovaglia e i contrappunti sono l'atteggiamento e le parole del matto del palazzo che, senza reverenza alcuna, cerca di far intender ragione a Lear: "dal giorno che delle tue figliole hai fatto le tue madri, hai dato loro la verga in mano e ti sei calato le brache".

Su tutti veglia l'imperscrutabile percorso del Destino, il lunatico andazzo della Fortuna, l'impassibile occhio del Fato che premia e punisce indistintamente gli esseri umani i quali, per dirla con Gloucester, altro non sono che "quel che le mosche sono per i monelli: un divertimento".

A queste giornate così monotone, stagnanti e logoranti, a questo senso d'impotenza, a tutti i pensieri che grufolano nelle immondizie depositate della paura. A tutto questo io oppongo la possibilità. Alla morte io oppongo Shakespeare. Alla morte io oppongo la vita.

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