Un uccellaccio nero che becca vorace un paio di teste in putrefazione: una copertina che esprime al meglio il senso di questa musica, che trapanerà il vostro cervello fino al sopraggiungere della vostra morte cerebrale. E "Burned Mind" non è a caso il titolo di questo album targato Wolf Eyes, nuova sensazione della scena experimental-noise statunitense del terzo millennio.

E' il 2004 e l'approdo ad un'etichetta importante come la Sub Pop si fa sentire. L'album è infatti quanto di più "accessibile" (le virgolette sono d'obbligo!) sia uscito sotto il nome Wolf Eyes, merito soprattutto della produzione, meglio definita e calibrata che in passato. Cosa che di per sé non è sinonimo di facile ascolto. Anche perché stiamo pur sempre parlando di veri e propri maestri dell'estremo. Magari non portatori di quella forza innovativa che una certa frangia della critica vorrebbe attribuire loro, magari in una versione un po' annacquata per poter conquistare nuove fette di mercato, data la maggiore visibilità che un'etichetta come la Sub Pop può offrire, ma pur sempre maestri dell'estremo.

Ragionare sul concetto di estremo è sempre cosa ardua in un mondo in cui i confini dell'estremo, appunto, sono slabbrati continuamente in tutte le direzioni, e il giudizio su cosa sia veramente estremo, conseguentemente, diviene qualcosa di puramente soggettivo, a seconda della sensibilità, del modo di vedere le cose e del paradigma di riferimento.
In questo caso, però, i Wolf Eyes sembrano voler mettere tutti d'accordo: in "Burned Mind", di fatto, confluiscono tutte le correnti estreme rintracciabili nell'universo musicale odierno, e, a prescindere dalla musica che si predilige e che più si teme, l'ascolto di questo album è un'esperienza che non può lasciare certamente indifferenti.

Basti pensare al minuto e trentotto secondi dell'opener "Dead in a Boat": innocui rumoretti, fruscii nel sottofondo, e poi, improvvisamente, qualcosa d'inudibile si avventa sulle nostre orecchie impreparate. Una drum-machine sparata a diecimila, un flusso di suoni inesplicabile, un rantolo agonizzante in lontananza: lo sgomento è tale che terminata la tempesta saremo ancora a chiederci, storditi, se si è trattato di elettronica, di grindcore o di un treno che ci ha appena investiti.
Solo proseguendo con l'ascolto potremo capire che i Wolf Eyes fanno elettronica (e che elettronica!), ma i dubbi riguardo all'etichetta da apporre su questa musica continueranno a permanere. Per esempio la vociaccia è di chiara matrice hardcore, strillata ed incazzata come vuole la tradizione, eppure talmente distorta e filtrata da rasentare il gelido gracchiare di un cantato pseudo black metal. Ma non solo: si parlava di elettronica, ma non siamo sicuri che si tratti invece dell'harsh noise più annichilente? Della drones music più assordante? Dell'industrial più allucinogeno? Del rumorismo più disarticolato? E le chitarre marce? Semplice post-hardcore o sublimazione cibernetica del doom più funereo?

Come vedete nell'entità Wolf Eyes vengono convogliate tutte le energie negative che l'universo musicale mette a disposizione. E quel che ne esce è qualcosa di fresco e personale, assolutamente non riconducibile ai singoli addendi, tant'è che gli ingredienti sopra elencati non emergono in maniera esplicita, ma si fondono e comprimono in un marasma sonoro in cui fermentano violenza, desolazione e nichilismo. Lo sfrigolare di una frittura di neuroni, il ribollire della merda dal fondo di un pozzo nero, un vigoroso gargarismo di melma e ruggine: "Burned Mind" è un muro di suoni in cui non si capisce bene chi suona cosa. E meno male che un aiuto ce lo dà il booklet interno, ricordandoci che a fare questo inferno sono solo in tre: Nate Young, Aaron Dilloway e John Olson, che si dividono sapientemente fra sintetizzatori, nastri, pc, chitarre e voci.

"Burned Mind" è anche l'album della maturità dei Wolf Eyes, un piccolo saggio sulle nevrosi urbane (il tutto è condensato in una scarsa mezz'ora, se si tolgono gli ultimi dieci minuti di silenzio) in cui i pieni e i vuoti vengono perfettamente calibrati, in cui esplosioni di rabbia incontrollabile si bilanciano e completano con momenti di inquietante calma.

Nella prima parte dell'album prevale senz'altro l'anima cacofonica del trio, e per le nostre orecchie, come bistecche buttate in una vasca di piragna affamati, la morte giungerà al fragore dei fischi, delle frequenze impazzite, delle smanopolate assassine, dei bassi micidiali, delle bordate di chitarra.
Nella seconda parte, invece, a regnare sono il respiro ambientale dei droni, le sequenze dei suoni in loop, il pulsare dei bassi, il ronzio delle chitarre, lo sgreciolio di un inquieto rumorismo. Cosa che naturalmente non ci tranquillizza affatto, ma anzi ci fa temere costantemente per il peggio. E a tal riguardo, come non citare gli otto perfidi minuti della monumentale "Black Vomit" (già il titolo rende l'idea): un lento rituale elettronico che dai semplici battiti iniziali, attraverso macchinose evoluzioni, cresce cresce cresce fino a sfociare in un caos lacerante di voci che si sovrappongono ed accavallano come uno stormo di avvoltoi che si avventano sulla carcassa delle nostre orecchie.

La musica dei Wolf Eyes è un'orgia di suoni, un cerimoniale suburbano che sembra provenire da una cantina maledetta, una sorta di rito pagano dell'era industriale volto ad attirarne i mali piuttosto che esorcizzarli. Ma il vero paradosso dei Wolf Eyes è quello di ricreare un caos interiore, di compiere un'aggressione che non è, nonostante le apparenze, un'aggressione fisica (impossibile pogare, impossibile cantare i pezzi a squarciagola, impossibile alzare il volume oltre un certo livello di sicurezza, a meno che non ci teniate a spappolare le casse del vostro stereo, e con esse le pareti di casa vostra!). Il loro, piuttosto, è un assalto che assume, fra echi e rarefazioni elettroniche, una dimensione mentale, un collasso psichico, uno stato confusionale che alberga nella testa dell'ascoltatore. Non è un'invocazione di forze oscure, ma un processo di amplificazione di fantasmi che già esistono.

Non a caso l'uccellaccio della copertina simbolicamente divora una testa poggiandosi sull'altra, come se la distruzione della mente sia punto di arrivo ma anche premessa necessaria. E l'adozione a livello formale di un approccio che ha il suo punto di forza nella dicotomia analogico-digitale, si riflette nella contraddizione insita nel titolo dell'album ("Burned Mind": la mente, nella sua inconsistenza, non può bruciare!), titolo che a sua volta ribadisce il fascino contraddittorio di questa musica, concreta ma al tempo stesso astratta, fisica ma al tempo stesso cerebrale, solida e pungente ma al tempo stesso inafferrabile. Un grido di disperazione, quindi, che non genera liberazione né costituisce uno sfogo pulsionale, ma che va ad alimentare repressione e nevrosi in un nefasto circolo vizioso.
I Wolf Eyes niente creano e niente distruggono, ma si limitano a chiudere, con effetti letali, un circuito che nasce dalle energie negative, dalle paure, dalla frustrazione del mal capitato con cui entrano in contatto. Come un fuoco che divampa da un pugno di scintille.

Purtroppo il più delle volte le parole non rendono davvero l'idea di quello che si vorrebbe dire, per questo, prima di abbandonarvi ai terribili suoni dei Wolf Eyes, vorrei che venisse ignorato tutto ciò che, da queste parole da me spese, potesse in qualche modo suonare fascinoso e conturbante, poiché qui di fascinoso e conturbante non c'è davvero niente, a meno che lo sia per voi il fetore emanato da un cadavere in putrefazione. O, meglio ancora, le esalazioni tossiche di una mente bruciata. La vostra.

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