Ricorrente nel cinema di Wong Kar-wai è l'impossibilità di vivere i propri sentimenti, quella pigrizia che lascia portare alla deriva e in ultima analisi solitudine (se non morte come in questa pellicola) le vite dei personaggi dei suoi film.
Appunto, questo "Angeli Perduti" del '95 non fa eccezione. Il film segue le vicende di quattro personaggi, un killer pigro, una donna che organizza le carneficine al killer, un ragazzo muto (pare perché abbia mangiato dell'ananas scaduto, ma ovviamente il motivo è un altro) e una ragazza di nome Charlie, all'apparenza la più normale del lotto, ma incapace di gestire le proprie emozioni.
Quattro "disabili" insomma, che intrecciano le loro vane vite senza mai riuscire veramente a costruire delle relazioni stabili, come intrappolati in dimensioni diverse (i fantasmi di "Pulse" di Kurosawa).
Scena simbolo quella del muto che guarda sconsolato, dopo il decesso del padre, una ripresa fattagli il giorno del suo compleanno.
Difficile fare il punto in questo dedalo di relazioni.
Lo scenario è quello di una Hong Kong perennemente notturna, quasi proveniente da un'altra dimensione, illuminata dalle luci al neon delle insegne o dei locali; immagini distorte come da una lente, granulose come se la pellicola stesse per disintegrarsi (merito della stupenda fotografia di Christopher Doyle).
Il finale forse può essere considerato il punto debole dell'opera, di sicuro fuori contesto, sincero, strambo, come a volere prendere una boccata d'aria da tutto quel malessere; infatti si vede il muto e la procacciatrice di omicidi insieme sfrecciare su una moto sotto il tenue cielo di un giorno all'alba, forse un giorno diverso. Si potrebbe intuire che qualcosa di buono tutto questo abbia fruttato, ma ci viene lasciato il dubbio.
Per me è il capolavoro del regista (superiore anche a "In the Mood for Love"), ma molto probabilmente faccio parte della nicchia.
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