Nell’ascolto , uniti nella ribellione dello spirito, sotto gli archi dei cromatismi di un arcobaleno in festa .
Istruzioni per l’uso:
Come combattere il sistema, da un’amaca .
O meglio, come ignorare il sistema, da un’amaca.
Nella percezione di quel sound, in quel perverso mood ondulatorio
che ci fa sprofondare da quella accomodante posizione, di quello schienale, ormai liso e scomodo, di quel divano macchiato di caffeina e menzogna, diventato scialuppa e guida itinerante tra mari scuri e densi di poliuretano espanso, virando tra relitti e macerie dei nostri tinelli e delle nostre domestiche prigioni.
Nella estrema rotazione dei sensi, la bussola ha conquistato il suo antico potere assoluto spettante e la direzione da seguire splende in quella Versailles dell’Ego, in quella millenaria ascesa della monarchia individuale.
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All’indomani dello sbarco di quel fanciullo d’Europa, in quel lunedì di Pentecoste nelle spiagge di Norimberga, quel ciuffo biondo color platino, quel viso deturpato dalla storia e da quei misteri , quelle storie altre di quei mondi distanti e lontani dai comuni orizzonti.
Ed un biglietto in mano di sola andata per l’Inferno.
Quale sfida per le umane comprensioni, quel giovane con quel candore puro e quale minaccia poteva rappresentare per le certezze delle caste, direttamente sceso sulla terra dall’Atlante, l’epoca evolutiva atlantidea in cui esseri spirituali erano guida per l’umanità. K.H. era animato e musicato dai suoi angeli spirituali, probabilmente anche dai Wooden Shjips, quali misteri si portava dietro questa figura e quali ansie suscitò con la sua entrèe in quelle diocesi ed in quelle aristocrazie del tempo, all’interno di quei mali che albergano dall’antichità, di quelle cattedrali del potere e dell’oscurità. Il Fanciullo d’Europa, con tutte le incomprensioni che suscitava in tutte le stratificazioni dell’esistenza era il benvoluto del popolo, era forse lui il “ cavaliere del cigno “ raffigurato da Rembrandt. Ma anche un pericolo costante per i suoi avversari, pugnalato ai giardini Ansbach dalle insidie di quell’ordine che deve mantenere il suo programma e perseguire il suo progetto.
Ucciso con rara barbaria, agonizzante e costretto sanguinante a immolare una via crucis in quel giardino, morto il terzo giorno, quella missione non compiuta infine perché “ il mostro e’ stato piu’ forte “ e quelle ultime parole , “Padre sia fatta la tua volontà e non la mia”.
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E sempre quella bussola, quella sovranità individuale che apre il mondo ai sensi ed alle liriche di questa opera Quinta di questi tosti Wooden Shjips , questa lenta seduzione e sedazione dalle decadenze, da quelle ceneri che come neve scendevano dalla foresta di Portland, in quei giorni di registrazione dell’album, da quelle brame incendiarie degli assassini temporali.
Quella volontà di spostare il culo aldilà della terraferma, in quello strale tra la tua Guinness, la tua veranda , le stelle e quei sogni che sono in attesa di prendere fiamma…
In quella allegoria psichica cara al fanciullo declamato poc'anzi, quella evoluzione ancora innocua degli Shjips che hanno modulato una novella trance con radici del rock classico e panorami più aperti ed oltre la psichedelia, quel nascondere le sillabe dietro imponenti bastioni del suono.
Quel tocco afrodisiaco di Ripley Johnson, quel mormorio che rimembra anelli di fumo, che svaniscono appena prendono sostanza.
Quel sound che plasma art e fantasy rock scovando le gemme della psyxties e fondendole con il minimalismo punk dei Suicide e con riverberi di dream pop.
Deserto del suono, elegia malinconica sotto quella strada rocciosa spesso inflessibile e distanziata dalle tribalità rusticane, stimolazione di un nuovo immaginario visivo, guerrieri dalle rocce scagliano frecce avvelenate di pamphlet e dardi contro droni teleguidati armati di bombe di pensiero sottratto ed impoverito.
E da quelle mura del suono, che tanto sanno di maieutica, tanto sanno di una rivoluzionaria pedagogia in grado di aprire orizzonti a generazioni stordite dal maelstrom dei social, che integra per poi dividere a piacimento, per infine appiattire a gettone ogni pensiero critico in grado di ribaltare questa realtà confezionata, senza alternative...
La totale narcosi del delirio, da qui la voglia di scappare sciroccati dalla follia di questo delay, di questo sound obliquo, dondolati dal vento su quest’amaca a strapiombo sugli abissi, immaginare altri mondi anche utopici ma che siano scintilla di un nuovo stile floreale...
Apre “Eclipse” una boreale odissea di sassofono, di roxyiana memoria, con un richiamo ad un Andy Mackay di ritorno da un tour acido con gli Spacemen 3 .
Alain Delon vaga senza pace per i giardini dell’Eur, sotto un sole incandescente in attesa di una femminile redenzione, che e’ assente come la frescura di quella fronda desiderata, parrebbe l’ultimo uomo sulla terra in attesa di quella evaporazione prossima della sua anima persa in infiniti brokeraggi della coscienza. Ascoltare per credere, diceva un altro commerciante di frattaglie.
“Staring at The Sun” narra della contemplazione di ciò che ami, traccia interstellare che rimanda ai Buffalo Springfield, quel momento intimo in cui, fissando il sole trovi quel fragilissimo punto di equilibrio tra la interior pax ed il tumulto dalla finestra.
Anche la distruzione apocalittica delle foreste di Portland , che caratterizzò il periodo di registrazione dell’album, la foschia di quei giorni diventa meravigliosa allucinazione, con quella tipica jam e quelle note che luccicano come brace fluttuante nei cieli.
E quelle navi di legno, che mirano il sole, in quel disegno sensuale ed inebriante che in questo momento potrebbe stonare come Peter Sellers in H.Party, hanno invece una chiara visione all’orizzonte.
Un’ oasi, in qualche posto da qualche parte, anche nel futuro, che attende e muove i fili, sulle acque, di quelle imbarcazioni. Facciamoci quantomeno spedire una cartolina.
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