Uno sguardo dimesso, che sa attendere il sedimentarsi della vita.
Uno sguardo immobile, che vive nei silenzi: nello scricchiolare impercettibile delle assi di faggio, nel borbottare del bollitore di stagno sopra la stufa.
Uno sguardo quieto, ad altezza pavimento. Come a voler significare di non esser indifferente rispetto a ciò che osserva.
La storia è semplice e modesta, come in ogni pellicola di Ozu. Proprio per questo, forse, riesce a farsi veramente universale.
In apparenza ovattata, essa è invece amara, come la vita.
Amara eppure tenue, piena di candore.
Quell’amaro candore che la patina del tempo e l’alterità del contesto (soltanto apparente) non riescono, nonostante tutto, a renderci indifferente.
Quella di Ozu è un’(est)etica del narrare in punta di piedi, senza strattonare il fruitore; lasciando che sia la storia stessa a parlare.
E la storia, come sempre, parla soltanto dell’imprevedibilità della vita, del nostro umile (e spesso vano) reagire ad essa e del vuoto che la morte lascia dietro di sé.
Di null’altro che di questo.
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