Esattamente questo. Ci ho messo un po’ a capire.
Hai mai pulito il culo di qualcun altro? Intendo un adulto, ovviamente. Con tutto il resto. Maschio o femmina.
Alcuni lo chiamano “mettere le mani nella merda”.
La cosa può esser svolta con grande dignità. E con rispettosa delicatezza.
C’è un modo di invadere l’intimità fisica di un altro con attenzione e cura. Perfino naturalezza.
Come quando si imbocca. Aiutando qualcuno a compiere un semplice atto vitale che da solo non potrebbe portare a termine.
Quel gesto non serve solo a chi lo riceve per necessità. Serve anche a te. Quel gesto rivela anche la tua di umanità. La fa emergere proprio questa particolare relazione, che comincia da uno stato di disarmante debolezza.
Mi è capitato, di recente, di dover lavare mio padre dopo la peritonite. Qui c’era una fatica ulteriore. Una rottura (di coglioni), direi. Ok. Ma si può trovare una dimensione giusta anche per queste cose.
Comunque sia, è questo il senso che dopo quattro mesi mi è baluginato all’improvviso riascoltando l’ultimo lavoro degli Yo La Tengo. L’entrare nell’intimità con tatto. Con buona amorevolezza. Al limite, graffiando innocuamente.
Ma che razza di rivoluzione è quella che è in corso e non ha niente da spartire col spregiudicato “There's a Riot Goin' On”, a dir poco “epico” (non sol per l’etichetta), degli Sly & The Family Stone? Ok, Nixon e Trump. Ma il riferimento politico resta abbastanza esterno. O gli YLT si son rifatti al successo (firmato Leiber & Stoller del lontano 1954) dei The Robins "Riot in Cell Block # 9"? «There's a riot goin' on/ There's a riot goin' on/ There's a riot goin' on/ Up in cellblock number nine». Adombrando una rivolta a suo modo carceraria? Mah.
Qui non troviamo grida di ribellione, ma sussurri. Cocenti. Da un flusso di coscienza all’incontro. Una rivoluzione pacifica e comunque sovversiva. Dell’intimità con l’intimità. Della relazione un po’ più autentica. A volte disillusa. Ma pronta a ricominciare tutto daccapo. Nelle ca##o di cose di tutti i giorni.
Se l’eclettismo onnivoro (e personale) della band di Hoboken ha prediletto gli idiomi del noise, del country-rock e della psichedelia, se il loro indie rock è stato sempre segnato dalla ricerca di equilibrio tra innovazione e rimando alla tradizione, mescolando l’anima elettrica a quella acustica, ora, dopo trentaquattro anni di onorata carriera, i coniugi Kaplan lasciano molto spazio al bassista McNew in sede di composizione e al suo “modernariato elettronico”. E James McNew, che per l’occasione fa anche da ingegnere del suono, genera loop scoloriti nella candeggina come punto di partenza per le jam del terzetto. Cercando orizzonti sempre più imprecisi. In un folk ambient non scevro di rimandi world e jazz (tra lounge e avant-garde ). Nel curriculum di McNew va rilevato un curioso album-tributo a Prince di elettronica indie lo-fi (“That Skinny Motherfucker with the High Voice?” del 2001, nel progetto Dumb). E se gli piace Prince allora gli piacciono i Family Stone. Ma ossequia i Can e Sun Ra. E i Gastr del Sol? Forse. E dopo si guardano le cose più in alto e lontano.
Più che con vere e proprie canzoni, qui abbiamo a che fare con atmosfere. I brani sembrano ancora in costruzione. Anzi, ancora in fase onirica. Così l’album risulta, nel complesso, inafferrabile. Indefinito. Fluttuiamo tra suoni dimessi, frequenze basse, timbri languidi, linee armoniche labili. Con lentezza. Tra sperimentalismi ambient, astrattismo folk, bossa nova, ritagli jazz, ritmiche tribali, inflessioni notturne. Post rock, perché no? In uno smarrimento che porta a una specie di estasi. Fuori di sé, verso gli altri. In Polinesia. Con gli amici. Con l’amata. A casa. Sulla Luna. Comunicando veramente. Improvvisando tra i richiami più disparati, senza concitazione. Esprimendo anche la rabbia con misura e raziocinio.
La profondità e i dettagli delle canzoni migliorano ad ogni ascolto. L’assieme è l’ideale.
S’inizia da “Tu sei qui”, ma anche “Voi siete qui” (“You Are Here”). Uno strumentale scampanellante, fuzz che insistono su ritmi infantili. Un’ombra serica blu, galleggiamo sul ritornello “surf” di “Shades of Blue” con Georgia. Poi, la cosa più avvicinabile a un singolo potenziale, “For You Too”; un basso sgranato, continuo, beat motorik, un arpeggio di chitarra che renderebbe allegri i Felt, una batteria veloce e calda, il canto di Kaplan angelico e distante. “Dream Dream Away” è un folk diafano in cerca d’acqua sui crateri lunari con la partnership di un ipotetico Sandy Bull. La ballata “Let’s Do It Wrong” è pioggia esile nella foresta pluviale, mentre le gocce si diradano ulteriormente in “What Chance I Have Got”. La gioiosa bossa nova di “Exported Casual” si contrappone a quella sperimentale di “Polynesia #1”, cover del brillante singer-songwriter Michael Hurley. «I'm going to Polynesia/ As the crow flies/ The reason I'm going/ Is because I done got wise». Si conclude con la coralità di “Here We Are”. Con una chitarra sgranocchiata. “Siamo proprio qui” tra sibili, soffi e scalpiccii. «Eyes shut, blinded/ Road remains clear/ Always on the run, we're here». E tutto sbiadisce in un appena tenue silenzio.
Quindi questo bianco album, da 3 stelle e ½ -intendiamoci-, che affida la rivolta al sogno e all’utopia una strada incerta, non ti tergerà se non con attenzione e rispetto. O comunque, più prosaicamente, non ti pulirà il culo se non dopo che l’avrai un poco caga#o. Difficilmente prima. Insomma, la sua identità implica un minimo di relazione.
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