Lo scopo in arte potrebbe essere, come in filosofia per Wittgenstein, «liberare la mosca dalla bottiglia».

Gli Yo La Tengo, dal New Jersey, sono, da trent’anni, un’istituzione dell’Indie Rock americano. Accanto alla produzione formale, canonica, non mancano molti EP, inediti, alterate version e raccolte di B-Side (“Genius+Love=Yo La Tengo”, del 1996 e “A Smattering Of Outtakes And Rarities”, allegato alla prima tiratura del best of “Prisoners of Love” del 2003). Senza contare le compilazioni ufficiali di cover “Fakebook” (1990) e il recente “Stuff Like That There” (2016), oltre a episodiche collaborazioni ed alias (i.e. Condo Fucks). Si tratta sempre di artefatti considerevoli, che non avrebbero sfigurato nelle opere principali. Offrono un quadro più completo di quello che definirei il loro impressionismo realistico.

Today Is The Day” (Matador, 2003) è un CD EP collaterale all’LP “Summer Sun”(stessi estremi), l’album cioè susseguente al cruciale “And Then Noting Tourned itself Inside-Out”, capolavoro di sconfino nei territori dell’Elettronica e del Jazz, con atmosfere rarefatte e struggenti, un senso trasognato, intimista, suddiviso in tredici mirabili capitoli, e a “The Sound of The Sound of Science”, colonna sonora strumentale ed espansiva, per i documentari di Jean Painlevé sul mondo sommerso. Nonché al Maxi Singolo con quattro cover di “Nuclear War” di Sun Ra. “Summer Sun”, a discapito della svalutazione dell’epoca, era un ottimo album, solare, pacato, nuovamente votato all’ecclettismo. L’opera meno velvettiana dei nostri. Pop Rock, Rock jazzato, esercizi Lounge, capricci Funky, tra composizioni tenui, ricerca colta e salubre ottimismo.

Stefano Benni “ricorda” che Aristotele fece il cameriere per due anni «ed ebbe l’intuizione della sua logica osservando un cliente che cercava di infilzare con la forchettina una grossa cipolla». Logica, appunto. La logica Yo La Tengo è illogica. In questo è Indie. Esce dai mercati. Congiunta immancabilmente al cuore. L’Extended “Today Is The Day”, tutt’altro che mero assortimento di abbozzi e scarti, poteva fungere da base di un album per chiunque. Loro, invece, cristallizzano una fase di dilagante urgenza creativa e stop. Punti fermi:

  1. La loro doppia anima: acustica, con melodie Folk ed elettrica, Noise Rock, satura di feedback e dissonanze. Velvettiani nell’una e nell’altra, basta spostarsi dal terzo al secondo LP dei newyorkesi. Ma non è citazionismo. È il più potente eclettismo, in un discorso onnivoro e personale che scardina certezze e generi.
  2. La relazione artistica ed affettiva dei coniugi Kaplan. Come si scambiano ad esempio le parti vocali nell’interpretazione della “doppia vita” dei loro pezzi. Ciascuno è la metà di un’unità più grande.
  3. Mancanza di pose e di ammiccamenti. Levatura delle proposte ed ampiezza enciclopedica degli orizzonti musicali.
  4. Hobocken, New Jersey. Il luogo più improbabile. Città ove la notte scende come in nessun altro posto.
  5. Chitarra, basso, batteria. Ira, James (dal 1992), Georgia. E voci. Che altro ci vuole per fare Rock?
  6. Le passioni iniziali, sempre latenti. E cioè: Love, Soft Boys, Mission Of Burma.
  7. La coerenza artistica. La bellezza rara, un po’ nascosta. L’equilibrio tra carica innovativa e rimando alla tradizione.

L’artwork dell’EP in questione riprende lo stile delle copertine di Ornette Coleman. I brani:

"Today Is the Day", bellissima, lenta, sognante nell’LP, qui, al contrario, aggressiva e veloce. Ira tortura forsennatamente la chitarra come farebbe J.Masics. Ma il canto delicato della Hubley abbrividisce contro quel muro del suono. Sottile la voce di Georgia, diafana. In un torrente di rumori. E di stilemi ipnotici. Una cosa disorientante. «Another day, come and gone/ Don't think I can ever sing that song/ Little secrets we bring along/ I'm taking my time, trailing behind, I thought of you/ Today is the day I think of you».

In "Styles of the Times", Ira pare evocare i Wire.

"Outsmartener" è un pezzo intimorente, magnifico. Chitarrismi distorti, ritmica ficcante, ricami melodici. Un boogie velvettiano con cantato basso e profondo. Spinto da rumorismi iterati, crescenti e tastiere nodose. Con tanto di assolo free di corno doppio.

Georgia canta eterea "Needle of Death", cover di Bert Jansch, tra singhiozzi e pigolii. "Dr. Crash" è un interludio strumentale.

Nel finale "Cherry Chapstick". Era l’unico brano tirato, noisy di “And Then Nothing…”. Qui, nella sua veste color pastello, quasi astratta, diventa una ballata acustica, leggera, vibrante come foglie scaramigliate.

Non solo erudizione Post Indie Pop, ma un puzzle intricato, dall’anima anima recondita: Blues, Country Rock, con qualche rapida occhiata dall’altra parte dell’Oceano, allo Shoegaze.

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