Mohnomishe: "l'estetica della non esistenza" Come parlare di musica a proposito di qualcosa che musica non è?
La musica è un linguaggio, il linguaggio è una prigione, il liguaggio è inganno, mediocre distorsione.
La distruzione del linguaggio deve avvenire in modo definitivo, non può esistere distruzione atta alla ricostruzione.
Se il linguaggio-musica è la cella da devastare per uscire da stati di coscienza stagnanti e letargici toccherà ad un non-suono il compito di distruggere, desertificare ogni cosa, le otto parti di questo trattato filosofico a nome Mohnomishe non avranno mai nome, mai saranno ammanettate, desertificheranno all' infinito, vuote, nulle, perfette.
Senza nessuna coscienza è possibile non esistere, quindi agire, estirpando ogni viscido meccanismo stritolante, strati su strati di suono sul suono per annullarlo, una musica che divora se stessa, un continuo consumarsi cannibalizzandosi pezzo dopo pezzo, l'eco di un suono in continuo disfacimento, corrode, il continuo pulsare macilento ed emaciato innesta soverchianti e disadorne visioni alterate, musica soffocata, come le linee di flauto ligneo travolte e ammorbate da risonanze acide e scabre della seconda parte, o ai terrificanti sussulti proto-techno della quinta e sesta parte.
Otto capitoli intrisi di carnalità e sangue, otto parti che danno l'illusione dell'immobilità pur muovendosi in cento direzioni opposte, nulla è più riconoscibile, all'interno di questi informi agglomerati sonici risuonano echi ancestrali e primitivi, tremebondi strappi mnemonici operanti al di fuori della coscienza, il liguaggio-musica è stato annientato fin dai primi secondi del primo brano, si può godere fin da subito della portentosa vista di quel deserto imponente battuto da un vento infuocato.
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