Degnissimo successore del capolavoro assoluto e fulminante debutto “Spreading The Disease” dell’anno precedente, questo “Among The Living”, album dedicato alla memoria del grande Cliff Burton, il bassista dei Metallica deceduto qualche tempo prima della sua pubblicazione, è la seconda fatica dei leggendari Anthrax e ha visto la luce nel lontano anno 1986, ed è sempre stato leggermente trascurato e messo in penombra a causa degli altri “soliti” storici colossi di quell’anno che si trovò ad affrontare.
Non è un caso, infatti, che il disco non sia nient’altro che solo un punto di contatto tra i vecchi Anthrax, quei cinque (quasi) italiani che all’inizio degli Anni ’80 infiammavano l’East Coast a colpi di virulento Thrash Metal dalle grandi aperture melodiche, e gli Anthrax successivi, sempre più impegnati a sperimentare e a fondere i generi più impensati e meno assimilabili, inserendo spesso e volentieri elementi di chiara origine Punk, Hardcore e addirittura Rap (!!!) che col passare del tempo arrivarono addirittura a perndere il sopravvento sul nucleo chiaramente Thrash che animava i nostri, ed andando così a tagliarsi le gambe e a non riuscire più a recuperare le vecchie, buone origini che li avevano resi tanto famosi e tanto rispettati.


Qui dentro si trova un po’ di tutto, dal Thrash bello e buono (la title-track, “Caught In A Mosh”,”Skeleton In The Closet”) al Thrash più “hardcoreizzato” (le ultime tre tracks ne sono un ottimo esempio), passando per inserti palesemente maideniani, e all’Hardcore duro e puro (ascoltate “Efilnikufesin”, che bisogna leggere al contrario per ottenere un titolo “sensato”, e vedete se potete darmi torto).L’unica traccia comune è che si nota una forte enfasi sulla velocità sfrenata e al tupatupatupa, caratteristiche già presenti su “Spreading The Disease”, ma qui ulteriormente accentuate, un chiaro invito a scatenarvi di brutto e a pogare fisso col termosifone della vostra camera (come ho fatto io).


Niente da dire sulle prestazioni individuali dei singoli componenti della band: il carismatico Joey Belladonna è come sempre vivacissimo, superlativo e sopra le righe, e con la sua unica voce, limpida, chiara, incitante al “moshing” e a tratti molto ma molto ironica e divertente, che permea tutto l’album, ci fa capire che, anche in un genere non certo famoso per le capacità tecniche dei cantanti, esiste sempre la piacevolissima eccezione che non conferma la regola; Charlie Benante è semplicemente inarrestabile, e segna qui probabilmente la migliore prestazione drummistica dell’intera discografia degli Anthrax insieme all’immortale predecessore, andando alla grande sia sulle parti di velocità pura sia nelle parti più lente dove mette in mostra tutta la sua creatività; le due asce Dan Spitz e Scott Ian spaccano a dovere, con riffs veloci e assolutamente taglienti, assoli leggermente banali ma sempre soddisfacenti e parti melodiche alla “Armed And Dangerous” da togliere il fiato e far allargare il cuore; le due veloci dita del bassista Frank Bello confermano il notevole talento dimostrato su “Spreading The Disease”, con interventi ottimi, sempre interessanti ma mai scontati, che lo elevarono tra i migliori bassisti Thrash della storia.


A questo punto, una sintesi mi sembra più che doverosa: l’album è ottimo e tra i migliori della discografia Anthraxiana, ma…
…Ma, se siete Thrashers duri e puri e non volete assolutamente saperne d’influenze esterne assai discutibili o di parti molto melodiche combinate magistralmente, probabilmente non potrete apprezzare al massimo l’atmosfera che permea il disco: un’atmosfera allegra, che sa tanto di “rottura con il passato, senza rinnegarne però l’importanza”.
Se, invece, volete apprezzare il punto di contatto tra i vecchi e “nuovi” Anthrax, siete disposti a tollerare qualche influenza punkettona di troppo o qualche riff fin troppo maideniano o melodico per essere definito Thrash, questo disco risulta assolutamente imperdibile e spensierato!

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