“I don’t wanna live in this fucking world for one minute more
So I’m gonna go to the corner store and buy another one” [Fucked Up]

La band, un sestetto con tanto di tre chitarre nato nel 2001, proviene dalle sterminate lande canadesi. Toronto e circondario per essere precisini. Adoro il Canada, la sua immensa e incontaminata natura; i milioni di ettari di foreste disabitate. C'è un luogo qui nell'Alto Piemonte che è stato definito come un "Piccolo Canada": meravigliose conche alpine nel Parco naturale dell'Alpe Veglia e Devero, ricoperte di estese foreste di conifere e faggi. Luoghi che frequento assiduamente da sempre, a differenza dei Fucked Up. “Dose Your Dreams” (Merge, 2018) è il loro sesto lavoro.


Le chitarre han la veemenza spasmodica dell’hardcore. I numerosi guest vocalist si sovrappongono; le voci femminili infondono dolcezza in mezzo a tanta primitiva arte di vivere. La batteria è esplosiva, il basso solido; fiati, tastiere e archi ampliano la tavolozza. Del resto “Punk is whatever we made it to be”, memoria minutemantrica, di conseguenza troviamo inserti elettronici indie, cortocircuitazioni psichedeliche ed episodicamente stolidi formalismi dance. I cori surf sfociano nel più improbabile spiritual ipnagogico. Siamo nell’art-hardcore tra barocchismi ed energia bruta; se la loro fonte di ispirazione originaria erano Black Flag e MDC, poi, han saputo inglobare i generi ed estendere a dismisura i propri orizzonti.

Non facile l'ascolto delle canzoni, 18, per complessivi 82 minuti e 9 secondi! Prendete "Accelerate": è una atomizzazione digitale dei Big Black con le dannate urla di Damian a rinverdire le follie dei primissimi Snapcase [altro riferimento con i cosiddetti controcazzi (”Ma checcazzo, DeMa, anche le parolacce?”)]. Le tre chitarre erigono uno sproporzionato muro; un suono ripetuto, ossessivo, a tratti "distaccato" come da helmettiana tradizione (lode e onore eterno a Page Hamilton!), ma anche sporco, noise e incisivo come nei migliori Dinosaur Jr..
Ascoltate anche “Raise Your Voice Joyce” e “Normal People” o l’omaggio agli Husker Du, "The One I Want Will Come For Me". Ovunque, noterete, imperversa la mascella forte e squadrata di un cromagnoide Brünn-Predmost scandinavo (cioè ibridato col Neanderthal) che urla con la forza di entrambi e si fa chiamare Pink Eyes. È esattamente il cantante che non dovreste invitare a un barbecue. Evitate anche la bassista Mustard Gas!

Tra i numerosi ospiti, rigorosamente accampati in una tenda canadese (ma del “Piccolo Canada”), segnaliamo Mary Margaret O'Hara, J. Mascis e la cantautrice folk Jennifer Castle.

L’album riprende curiosamente la trama narrativa del concept del 2011. Racconta di un certo David Eliade che, appena licenziato, incontra una predicatrice/politicante di nome Joyce Tops che lo avvia ad una sorta di percorso iniziatico. Alla fine, liberatosi dall’oppressione “dei mediocri” e dalla schiavitù alimentata dal potere “dell’avidità, della reificazione, del consumismo e dei social”, David può tornare a sognare e realizzare i propri sogni coniugando l’utopia e il realismo. E “Joy stops time”.


Il suono è elastico, accelerato, incendiario. Non si smette (quasi) mai di correre in questo doppio album. C’è la foga degli antichi mammiferi capaci di accoppiarsi in corsa. C’è l’eroismo dell’aitante Pogoman che si lancia sulla folla! E tutto pare proiettarsi verso una grande catarsi. La produzione purtroppo è un po’ edulcorante. Fosse stata messa nelle mani di Albini grideremmo, come Lazzaro, al miracolo!

Raise Your Voice.

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