"E chi cazzo saranno mai questi Fucked Up che Almo mi ha proposto come collaborazione recensoria a quattro mani, o quattro piedi fate voi!!” [De…Marga…]

“Io volevo collaborare con Genital Grinder. Rimando tutto al mittente.” [Almotasim]

“I don’t wanna live in this fucking world for one minute more
So I’m gonna go to the corner store and buy another one” [Fucked Up]


Nato nel 2001, codesto gruppo a sei, con tanto di tre chitarre, proviene dalle sterminate lande canadesi. L’Ontario per il Risiko! Toronto et circondario per essere precisini.
Adoro il Canada, la sua immensa e incontaminata natura; i milioni di ettari di foreste disabitate [Alce, castoro e Grizzly: «E noi, che siamo? Argilliti?».]. C'è un luogo qui nell'Alto Piemonte che è stato definito come un "Piccolo Canada": meravigliose conche alpine nel Parco naturale dell'Alpe Veglia e dell'Alpe Devero, ricoperte di estese foreste di conifere e faggi. Luoghi che frequento assiduamente da sempre, a differenza dei Fucked Up. Sempre pensato bene delle band canadesi; almeno tre di loro rientrano nei miei ascolti da decenni. Mi riferisco a Voivod, Rush e Gorguts.
Comunque il Canada è anche succo d’acero, Leonard Cohen, Joni Mitchell e Buffy Sainte-Marie.

Impressionanti già al primo ascolto, ecco Damian Abraham, Mike Haliechuk, Josh Zucher, Ben Cook, Sandy Miranda e Jonah Falco. Audaci, creativi, quasi senza limiti; a tratti spiazzanti nel loro recente “Dose Your Dreams”.

Ecco, le chitarre han la veemenza spasmodica dell’hardcore. I guest vocalist si immettono, sommano, sovrappongono; le voci femminili diffondono dolcezza in mezzo a tanta primitiva arte di vivere. Una batteria esplosiva sovrasta i break-beat, il basso è fisso e solido; fiati, tastiere e archi, (sì, fiati, tastiere e archi!) ampliano la tavolozza. Del resto “Punk is whatever we made it to be”, memoria minutemantrica. Ecco, di conseguenza, inserti elettronici indie, cortocircuitazioni psichedeliche ed –episodicamente- stolidi formalismi dance. I cori surf sfociano nel più improbabile spiritual ipnagogico. Siamo nell’art-hardcore tra barocchismi ed energia bruta.
Ci aggrediscono! Il muro del suono che la band crea è di prim'ordine. Affonda le proprie radici nell'hardcore punk, dichiarano di ispirarsi a Black Flag e MDC, ma, ricco e sfaccettato, ingloba i generi ed estende a dismisura i propri orizzonti.

Ovunque poi imperversa la mascella forte e squadrata di un cromagnoide Brünn-Predmost scandinavo (cioè ibridato col Neanderthal) che urla con la forza di entrambi e si fa chiamare Pink Eyes. È esattamente il cantante che non dovreste invitare a un barbecue. Evitate anche la bassista Mustard Gas!

Non si smette (quasi) mai di correre in questo doppio album. C’è la foga degli antichi mammiferi capaci di accoppiarsi in corsa. C’è l’eroismo aitante di Pogoman che si lancia sulla folla! Tutto pare proiettarsi verso una grande catarsi.

Il suono è sporco di per sé, elastico, accelerato, incendiario.
La produzione? Purtroppo è un po’ troppo edulcorante. Fosse stata messa nelle mani di S. Albini grideremmo, come Lazzaro, al miracolo!

L’album riprende curiosamente la trama narrativa del concept del 2011, raccontando di un certo David Eliade che, appena licenziato, incontra una predicatrice/politicante di nome Joyce Tops, che lo avvia ad una sorta di percorso iniziatico. Mentre in un teatro assiste alla messa in scena della sua stessa vita, passa dall’esaltazione più delirante all’impulso di morte per giungere alla propria autentica e condivisa umanità (conosce Lloyd In The Void, fidanzato di Joyce, che sta facendo il medesimo percorso e lo sconclusionato The Dynamitard). Alla fine, libero dall’oppressione dei mediocri e dalla schiavitù alimentata dal potere “dell’avidità, della reificazione, del consumismo e dei social media”, David può tornare a sognare –come quando era bambino- e “regolare”/realizzare i propri desideri profondi coniugando finalmente l’utopia e il realismo, essere nel mondo ma non del mondo, sapendo d’essere con e per gli altri.

Non facile l'ascolto delle canzoni, diciotto (complessivamente 82 minuti e 9 secondi!), tanto che alcune di esse superano i sei minuti, talmente è smodata l'ambizione ivi dimostrata dal sestetto canadese, ma anche dalla loro tenda, che per l’occasione ospita anche Mary Margaret O'Hara, J. Mascis e la cantautrice folk Jennifer Castle.

I brani da cui partire sono l’allegro perdifiato “Raise Your Voice Joyce”, “Normal People”, dove i Nostri giocano a sapientino con Arcade Fire, Nine Inch Nails e Jesus and Mary Chain, oppure "The One I Want Will Come For Me", un evidente omaggio agli Husker Du.
Ma prendiamo "Accelerate", pezzo digital-hardcore in odore di Big Black, dove la voce sbraitante del sing singer getta kerosene sul fuoco; le dannate urla di Damian ricordano tantissimo le follie dei primissimi Snapcase, altro riferimento a mio parere con i cosiddetti controcazzi. [«Ma checcazzo, DeMa, anche le parolacce?»]. Le tre chitarre erigono uno sproporzionato muro; un suono ripetuto, ossessivo, a tratti "staccato" come da helmettiana tradizione (lode e onore eterno a Page Hamilton!!). E che sei corde sporche, noise e incisivive come nei migliori Dinosaur Jr. E che dire poi della maglietta indossata nel video dal batterista!?! Un vero e proprio "tuffo al cuore" per un metallaro come il sottoscritto visto che stiamo parlando dei Black Metallers VENOM!!!

Giudizio del tutto positivo per una band meritevole da parte mia, sua, forse tua, di un sicuro approfondimento; almeno io ci proverò...
E comunque “Joy stops time”. È certo! La fantasia mette radici dove la realtà sonnecchia. Joyce!!


Raise Your Voice.

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