Ogni album di Mia Martini consegna alla storia della musica italiana alcune delle più significative porzioni di bellezza in musica, che siano state espresse nel nostro Paese in anni, oramai lontani, in cui esisteva ancora una discreta industria discografica in grado di supportare un certo tipo di "mondo", artisticamente parlando, fatto di talento, personalità e buongusto. Un mondo che è pressoché scomparso, lasciando un vuoto che ad oggi dubito fortemente possa essere colmato, invasi come siamo dall'involgarimento e dall'appiattimento totale che regnano sovrani presso ogni settore artistico. Assenza di anima, assenza di spessore, assenza di bellezza: salvo rare e lodevoli eccezioni, è questa la condanna del nostro presente.

La bellezza delle opere di un'artista francamente inarrivabile come Mia Martini, oggi più che mai appare dunque in grado di riscattare, almeno parzialmente, un'esistenza distrutta dalla superficialità di un ambiente che in fondo non poteva che rappresentare in pieno un atteggiamento che è sempre esistito presso una fetta consistente della società italiana, piccola e provinciale, ma proprio per questo spietata con chi ha qualcosa di vero da dire, con le forti personalità, con i "diversi". E Mia Martini era una diversa, nell'arte e nella vita; era una splendida anomalia che pagò tutta la vita per la bestialità di tanti colleghi e addetti ai lavori che la violentarono psicologicamente per anni, fino a lasciarla consumarsi di rabbia e di solitudine. Lei non c'è più.

Ma la sua voce, le sue canzoni, la sua musica, non finiranno mai; lì sono e lì resteranno.

Bisogna averli, i suoi dischi. Io che li ho tutti, non riesco più a dire quali siano i più belli, quali possano essere i brani "essenziali" per un'eventuale best of rappresentativo. Per questo, dovendo parlare di "Lacrime", non intendo esprimermi con frasi tipo "uno dei più belli", "tra i miei preferiti", no, perché amo praticamente tutto quello che lei ha fatto. Amo l'intensità e la verità della sua arte, quel suo essere sempre stata oltre il tempo, le mode, e le ruffiane furberie del mestiere: una donna curiosa, perennemente in cerca di quella "passionalità dell'animo" - come la chiamava lei - e una compagna di viaggio irriducibile: la musica, verso cui ebbe sempre una propensione "maniacale", come disse invece Ivano Fossati, l'amore di una vita.

Dopo una lunga ma necessaria premessa (in relazione a quanto segue), adesso voglio davvero parlare di "Lacrime". Un album che è stato inciso più di vent'anni fa, ma che sento particolarmente attuale, forse anche perché resta l'ultimo album di inediti di Mia Martini, quindi è come se la sua musica e la sua voce si fossero fermate a quel periodo: allora come fosse ancora adesso.

Nel 1992 Mia Martini è ormai giunta ad un livello artistico-espressivo che aveva pochi pari nel panorama della così detta musica "leggera" italiana (termine che non mi è mai piaciuto): dopo il ritorno al successo e la riscoperta da parte di vecchi e nuovi cantautori, la Martini si era confrontata anche con il jazz e con la canzone napoletana. "Lacrime" è infatti un album che rappresenta Mia Martini in varie vesti musicali: c'è la grande interprete che va a Sanremo con brani di grande successo popolare, c'è la signora sofisticata dei cantautori, c'è la folk-singer che si diverte a cantare in napoletano senza disdegnare le atmosfere etniche; c'è l'artista-donna che si esprime sui problemi di altre donne e sui cambiamenti della società.

Si tratta anche di un album per niente commerciale, come quasi tutti i lavori della sua raffinata produzione: l'unica canzone in grado di far breccia presso le platee più ampie è forse "Gli uomini non cambiano", brano con cui Mia Martini torna a parlare al grande pubblico, cosa alla quale per altro teneva moltissimo. Nel disco troviamo parecchi spunti di riflessione, spesso caratterizzati da una sottile vena ironica tipica della Mimì degli ultimi anni, come se fosse questa la sua ultima arma contro la sofferenza: sulla copertina, le lacrime del titolo escono fuori da una cipolla, e questo per sdrammatizzare, in quanto "Lacrime" non doveva essere recepito come un disco "triste".

Per la realizzazione dell'album, Mia Martini si affida al team del compianto Giancarlo Bigazzi, autore del successo "Gli uomini non cambiano": una canzone che può non piacere (e infatti a molti non piace), ma che senz'altro non poteva essere interpretata meglio. "Gli uomini non cambiano" è uno di quei pezzi che affidati a una qualsiasi altra interprete rispetto all'originale, perde tutta la sua forza; diversi anni fa l'ho vista interpretare in tv da Manuela Villa ed è stato davvero imbarazzante sentire tutti quei gorgheggi e quegli arzigogolii che hanno spogliato il brano della sua originaria "verità" e della sua crudezza emotiva, rendendolo un patetico e anacronistico pseudo-melodramma. Ma potrei citare anche il recente omaggio di Eleonora Crupi, che ha ingenuamente tentato di attualizzare il brano rimandendo però incastrata nello schema interpretativo originale, che a causa di evidenti limiti artistici non ha fatto che rivelarla in tutta la sua inadeguatezza.

Insomma, "Gli uomini non cambiano", interpretata da un'altra cantante non ha praticamente senso, perché nessuna dopo Mia Martini può effettivamente restituirgli quella completezza, quell'intensità, dunque quella credibilità necessaria affinché possa essere ancora recepita come una canzone musicalmente "seria", "importante". Lei ci riusciva, grazie naturalmente a quella suo timbro vocale così incredibilmente dolente, ma anche e soprattutto grazie al suo vissuto di donna resa oramai logora dalle delusioni, dal peso di un'affettività lesa fin dalla più tenera età. Il finale ("quelli innamorati come te") era pura ironia: lei non ci credeva. Io amo davvero quest'interpretazione, la considero una delle sue più grandi in assoluto, in cui confluiscono disperazione, rabbia, amarezza, con grinta mista a rassegnazione e sfinimento.

A Sanremo '92 fu vittima di una delle più grandi ingiustizie nei suoi confronti: la mancata vittoria all'ultimo secondo. Lei (e non solo lei) ci rimase malissimo per il secondo posto, e per quella vittoria che le fu letteralmente scippata dietro le quinte di un carrozzone in cui proprio quell'anno si decise che a vincere non potesse essere colei che era stata data da tutti come favorita fin dall'inizio. Inutile dire che dopo tutti questi anni, la canzone-interpretazione maggiormente impressa nell'immaginario collettivo è proprio "Gli uomini non cambiano", e non certo "Portami a ballare" di Luca Barbarossa. Pippo Baudo, vent'anni dopo, va ancora in giro in tv a dirsi dispiaciuto per quel che accadde durante quel Sanremo: scuse che purtroppo ormai non servono a nulla.

Avrebbe dovuto classificarsi prima anche all'Eurofestival (dove la fecero partecipare, cosa che in genere spettava di diritto al vincitore di Sanremo), ma anche lì Mia Martini pagò per l'ennesima volta il suo essere italiana: quell'anno non poteva vincere la rappresentante italiana poiché l'anno successivo sarebbe toccato proprio all'Italia organizzare la manifestazione e sappiamo bene qui da noi com'è considerato l'Eurofestival.

Biagio Antonacci, Mimmo Cavallo ed Enzo Gragnaniello sono i tre cantautori che completano l'album.

Di Antonacci è "Il fiume dei profumi", un brano bellissimo, in cui la voce di Mimì riesce a rendere al meglio la malinconia del soldato che scrive alla sua donna nel bel mezzo di una guerra, perdendosi nei ricordi di un amore lontano.

Mimmo Cavallo firma "Dio c'è", un brano discreto che però oggi risente di un arrangiamento non proprio eccellente, con quei brutti cori sul finale. Il testo, interpretato con grinta, denuncia la mancanza di riferimenti autentici in una società sempre più complessa e disorientata, incapace di metabolizzare i suoi stessi cambiamenti, con i più deboli a subirne drammaticamente le conseguenze: un'interessante spunto retrospettivo su quelli che già allora erano i germi dell'odierno disfacimento generale.
Poi c'è "Il mio oriente", sempre di Mimmo Cavallo, ed è uno dei brani più affascinanti dell'album, in cui Mia Martini torna ad esprimere il suo gusto etnico attraverso l'utilizzo di cori che richiamano atmosfere di altri brani del suo passato discografico come "Milho verde" (1976), "Nanneò" (1981) e "Lucy" (1985), in cui si respirano e si fondono Mediterraneo, Oriente, Brasile e tutti i Sud del mondo, dove l'artista aveva sempre identificato e collocato una parte importante di sé stessa. A testimonianza del suo amore per il Sud, le sue radici, e la città di Napoli in particolare, a conclusione dell'album Mia Martini inserisce "Scenne l'argiento" di Enzo Gragnaniello, prosecuzione del percorso avviato con le precedenti composizioni del cantautore partenopeo: la cantante non vuole affatto rinunciare a questo tipo di repertorio, potendo anche contare sul successo di "Cu'mme", scritta dallo stesso Gragnaniello e pubblicata pochi mesi prima, in uno storico duetto con Roberto Murolo.

Ma le canzoni che personalmente ritengo più emozionanti (oltre a "Gli uomini non cambiano"), sono "Uomini farfalla" e le altre due scritte dal team di Bigazzi: "Versilia" e l'omonima "Lacrime". "Uomini farfalla" è di Maurizio Piccoli, storico autore presente in moltissime tappe del percorso discografico di Mia Martini, distintosi per la grande sensibilità oltre che per la sincera amicizia nei confronti dell'artista stessa. Si tratta di uno dei testi più belli in assoluto che la cantante abbia interpretato nella sua carriera; aveva anche pensato di proporlo per quello stesso Sanremo '92, ma in effetti il tema trattato risultava assolutamente improponibile, specie per una cantante come lei, molto amata anche dal più pubblico più tradizionale. "Uomini farfalla" è la storia di una donna che crede di poter amare due uomini molto amici tra di loro e all'improvviso scopre che i due intrattengono in segreto una relazione omosessuale: il tutto raccontato con incantevole poesia ("tenerezze quasi dure coltivate sul mio seno", resta forse il verso più significativo).

"Versilia" è stupenda, piena di immagini suggestive nelle quali si perde la fantasia di una donna innamorata sullo sfondo di un'estate versiliana, appunto: la melodia non è affatto banale e prevede passaggi musicali anche piuttosto difficili, che la cantante riesce però brillantemente a sfidare con la consueta bravura.

La sua vocalità è ciò che forse amo di più di tutto l'album: gli ultimi due lavori di Mia Martini sono straordinariamente emozionanti soprattutto per quella sua voce così intensa, viscerale, per la vita ciò che riusciva a portarsi dentro, ed era soprattutto la sua vita. Una voce sicuramente più affaticata, ma così autentica, e così potente nel suo vigore espressivo.

"Lacrime", l'altro brano firmato da Bigazzi, si concentra sull'alienazione domestica di molte donne, sopraffatte da un ruolo sociale ad uso e consumo del maschio, che troppo spesso finisce svilirne ed umiliarne i sentimenti, talvolta finanche alle più estreme conseguenze (vorrei bere il detersivo e morire in questo caldo...), con un chiaro riferimento al suicidio, dunque. Il titolo originale era "Lacrime nel Vim", Vim che fu poi sostituito dal più innocuo "Clean" (che non esiste), per paura che il testo venisse recepito come un cattivo spot per il celebre detergente della Unilever (evitando, dunque, eventuali ripercussioni legali).

A Mia Martini, che nel corso della sua carriera aveva più volte affrontato la tematica femminile in chiave sociale, piaceva in questo caso l'idea di porsi in netto contrasto con la più convenzionale rappresentazione mediatica (ovviamente falsata) delle casalinghe, esasperata da un linguaggio pubblicitario essenzialmente basato sullo stereotipo della casalinga bellissima, sorridente, magari anche ammiccante, intenta a promuovere un detersivo piuttosto che qualsiasi altro, banale prodotto commerciale.

In questo brano, l'oggetto della suddetta finzione conformista - spogliandosi di ogni superficialità e di luogo comune - diventa finalmente soggetto, persona, donna. E non la sua rassicurante controfigura mediatica, allineata alla peggior sottocultura "machista" tutt'ora imperante, secondo cui questa esisterebbe esclusivamente in quanto "al servizio" di qualcuno o di qualcosa d'altro, e non in quanto essere umano realmente compiuto, con emozioni, desideri e pensieri propri.

"Questo disco è dedicato agli uomini... di buona volontà."

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