E il pensiero va (senza fretta) a quelle puntate di Domenica In sorbite unicamente nell'attesa di 90esimo minuto, alle ospitate trionfali dalla Venier e ai bagni di folla festante nel periodo sanremese, a un pianoforte bianco che per magia diventava turchese o blu cobalto sotto le luci di scena, e a quell'aria composta (ma carismatica) da vecchio maestro di un film di cappa e spada. Cinese.

Un pretesto per riascoltare – anche più di una volta, all'occorrenza – l'ultimo successo regolarmente al quinto/sesto posto in classifica, ma anche per assaporare la consacrazione di quello che ai tempi avresti potuto definire il più poetico dei cantautori italiani (e ti avrebbero preso sul serio).

Penso al '96 di Cantare è d'amore, ma anche al '93 di Notte bella magnifica, pezzi che facilmente si sarebbero contesi il titolo di “canzone italiana più romantica dei '90” (con grande incertezza su chi l'avrebbe spuntata). Se, nel mezzo, non fosse arrivato quel capolavoro fuori tempo e fuori categoria che è Cinque giorni di Zarrillo.

Artista fin troppo sfaccettato per limitarsi ai facili successi da classifica, gettò le basi (in Italia) della colonna sonora per fiction d'ambientazione fantasy, legando il proprio nome ad altissimi momenti televisivi made in Fininvest. Da Fantaghirò a Sorellina e il principe del sogno, da La principessa e il povero a Desideria e l'anello del drago (benché quasi tutti si ricordino di Anna Falchi e quasi nessuno delle colonne sonore di Amedeo Minghi).

Comunque, sia chiaro: d'accordo la consacrazione e d'accordo gli ambiziosi progetti collaterali, ma il Minghi che ti cambia la vita (segnando un prima e un dopo) è quello di Serenata. Prima di tutto, perché c'è Panella. Che si firma Duchesca, ma è sempre Pasquale. E “Sciocca luna se le goda lei le stelle facili” è una panellata pesante di quelle che ti arrivano dritte in fronte, lasciando un marchio a vita. Secondo, per quel fluttuare disinvolto fra passato remoto e condizionale presente – e, contestualmente, per quei finali in dittongo - senza cui l'Amedeo non sarebbe Minghi.

"E vagamente mi muoverei... forse ti sfiorerei... come un'alga ti ondeggerei..." (con tanto di uso transitivo dell'altrimenti intransitivo ondeggiare)

"E lì l'amai... dimenticai di lei... e lei... (di me)"

Senza dimenticare "te che non ti svegli mai e fiamme in sogno crei, scese a dirmi che non ci sei".

Tutti cugini di primo grado dei lungomai che costeggiai quando m'estasiai e ti spensierai, e cadere guardai la tua testa estranea (che rotolò).

Terzo e fondamentale motivo, perché il Minghi di Serenata sa anche aprirsi una breccia di Porta Pia nel cuore di tutti. Non lo fa solo giocando la carta della nostalgia (Anni '60, che marca la fine della collaborazione col compianto Gaio Chiocchio ex-Pierrot Lunaire), ma anche sperimentando celestiali e tastieristiche sonorità new-age a metà tra musica vaticana e il Fantaghirò che sarà.

Chi meglio di lui, del resto, avrebbe saputo cantare la grandezza e l'umiltà del più grande polacco del 20esimo secolo? Qualcuno provò a fare altrettanto, ma senza toccare le stesse vette di lirismo.

E tu che stai lì e sogghigni supponente, sappi che puoi anche avere tutta la discografia in vinile di De André comprata con L'Espresso, ma se poi non metti Vattene Amore fra le più belle italiane di sempre hai proprio un trottolino al posto dell'anima.

E la testa ci sbatterai.

Ai.

Ahi.

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